Automobili nella tempesta ci riporta ai primi anni 70, quando la AMC Pacer debuttava nel segmento delle subcompact americane introducendo un’architettura due volumi e una serie di soluzioni tecniche peculiari. Nonostante i contenuti validi, la Pacer dovette fronteggiare molte avversità.
Cinquant’anni fa in questi mesi, mentre in Italia l’Alfasud si avvia al debutto, anche dall’altra parte dell’Atlantico si cominciava a pensare a una due volumi ”subcompact”, dalla linea violentemente moderna e prestazioni convincenti. Una vettura che potesse offrire all’annoiato automobilista americano un attimo di emozione e provasse a contenere il successo delle piccole vetture straniere. Un successo che né la Ford Pinto né la Chevrolet Chevette erano in grado di contrastare.
L’idea, infatti, non venne alle “big three” di Detroit, ma all’ultimo rimasto dei costruttori indipendenti: quella AMC che raggruppava l’eredità della Nash Kelvinator, quella della Hudson Motor e la fortissima personalità del marchio Jeep.
I manager della American Motor Corporation pensarono a una “wide, small car”, una compatta (sempre secondo i canoni USA) lunga come una Passat, ma larga come una Cadillac, con tre quarti dell’abitacolo rivestito in vetro e un motore rotativo Wankel che prometteva di consumare un terzo in meno delle concorrenti. Non male per un produttore di nicchia, che aveva fatto delle economie di scala e dell’ottimizzazione la chiave del successo.
Un nuovo concetto di utilitaria. Tutto nella nuova “Pacer” era diverso e poco ortodosso. Persino le due portiere erano diseguali, con quella del passeggero più lunga di una spanna per facilitare l’ingresso ai sedili posteriori. Il disegno enfatizzava la bolla vetrata dell’abitacolo, resa possibile da un mirabile roll-bar nascosto nel montante B. In un’epoca di lamiere a spigolo e trapezi, lo stile morbido della Pacer era notevole, armonico. E pur andando controcorrente, piacque subito e i giornali americani accolsero le anticipazioni con un applauso.
In realtà, già nella fase di sviluppo l’auto incontrò ostacoli gravi, a cominciare dal propulsore. E’ noto come la messa a punto del Wankel, in Europa come in America (dove lo sviluppava la General Motors) diede non pochi grattacapi agli ingegneri, prima di divenire affidabile. E in quanto a consumi tradì sempre le aspettative. Questo proprio mentre le nuove norme anti-inquinamento diventavano l’incubo dei costruttori. A pochi mesi dal lancio la General Motors annunciò quindi che non avrebbe fornito i suoi motori e l’AMC si trovò spiazzata. Al posto del piccolo Wankel, per il quale era stato dimensionato il muso della Pacer, si dovette adattare un sei cilindri in linea di 3.8 litri, il cui basamento finiva praticamente dentro l’abitacolo con problemi di accessibilità meccanica e peso. Le promesse di economia, quelle 25 miglia a gallone sventagliate alla stampa, caddero nel dimenticatoio, mentre i costi di sviluppo subirono un’impennata.
L’idea vincente. Ciononostante la Pacer ebbe un’accoglienza festosa, sia da parte della stampa che del pubblico, convinto dal look contemporaneo, dagli interni spaziosi, dal prezzo competitivo e delle promesse di parsimonia. Sembrava che l’industria americana avesse rotto un tabù, dimostrando di saper produrre anche un’utilitaria per il suo pubblico d’elezione.
Dopo una messa in linea a tappe forzate, la Pacer arrivò sul mercato nel 1975, mentre anche la VW Golf (Rabbit in America) faceva il suo debutto. Il prezzo di listino delle due era identico. Inutile dire che la AMC si trovò sommersa di ordini, con file ai concessionari e lunghe liste d’attesa. Per il cliente medio americano non c’era confronto: la Pacer aveva i gadget a cui tutti erano abituati e non scatenava, una volta chiuse le portiere, attacchi di claustrofobia. Nei primi due anni se ne vendettero quasi duecentomila, furono aggiunti motori più potenti e alcuni problemi tecnici risolti. Ma qualcosa, già nel ’76, cominciò ad andar storto.
L’incantesimo svanì in fretta. In primo luogo l’auto, era tutt’altro che parsimoniosa. E con il peggiorare della crisi petrolifera la cosa divenne pressante. Le norme antinfortunistiche imposero paraurti più pesanti e altre modifiche alla scocca: il motore, pesante e già poco vispo, fu strozzato dai nuovi catalizzatori. Poi ci fu il problema dei rivestimenti e delle plastiche che si cuocevano al sole grazie all’effetto serra delle vetrate. Oltre ad altri piccoli, ma noiosi difetti, colpa delle prove frettolose. In ultimo il design, che al debutto era sembrato futuristico, cominciò a invecchiare.
Fatto sta che nel ’77 le vendite si dimezzarono, nel ’78 erano ridotte a 21.000 unità nonostante l’arrivo di una versione station wagon e l’ingresso della Renault nella compagine societaria. L’ingresso dei francesi, se da un lato creò una moda passeggera per la Pacer in Europa (anche le poche immatricolate in Italia risalgono a quel periodo), dall’altro ne affrettarono in qualche modo il collasso: i modelli Renault importati in USA costituivano, a ben vedere, delle alternative di vetture compatte e ben costruite, almeno in quelle aree sensibili all’ influenza europea. Nel 1980, dopo solo cinque anni e meno di trecentomila pezzi, l’avventura era finita.
Il coraggio di osare. Cosa resta, a mezzo secolo di distanza, di questa insolita e sfortunata storia? Sicuramente il tentativo di un outsider di cambiare le regole, di osare, in un mercato come quello americano ingessato e tecnicamente conservatore. Osservata oggi la Pacer può piacere o meno, ma è indubbiamente un oggetto di design, come lo sono la Ami 6 o la Fiat Multipla. Le sue forme plastiche, opposte alle linee tese del tempo, l’eccezionale superficie vetrata e curvata, le proporzioni stesse di lunghezza per larghezza e gli studi di abitabilità furono una coraggiosa novità. Se la motorizzazione fosse stata davvero più moderna, i difetti di gioventù meno gravi, i rivestimenti migliori, probabilmente la Pacer sarebbe ricordata diversamente e tutta la vicenda della AMC, finita – insieme alla sua utilitaria mancata – nelle mani della Chrysler, avrebbe potuto diventare un’altra.