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Auto strane per giorni strani: 10 visioni del XX secolo

Stiamo vivendo tempi stranianti e sconosciuti. Mai sperimentati prima. Nei giorni in cui i vigili multano i pedoni anziché gli automobilisti, siamo invitati a non pagare la tassa di possesso, né a sottoporre i mezzi alle revisioni, rischiamo il disorientamento. Di non capirci più nulla, insomma.

Quando la confusione è grande sotto il cielo, il momento è eccellente per ripercorrere con un po’ di frivolezza il “secolo breve” attraverso dieci auto altrettanto strane.  Visionarie a proprio modo, perché hanno interpretato, precorso o stravolto i grandi temi della progettazione e del design automobilistici. Oppure strane e basta, da guardare per lasciar affiorare un sorriso in questi giorni strani. #iorestoingarage

Anni 10: Bjering Bedelia. Molto prima che Enzo Ferrari facesse notare che i cavalli si mettono davanti al carro, in Olanda ci fu chi pensò di porre il passeggero davanti al guidatore. La Bedelia fu prodotta per un paio d’anni alla fine della Prima Guerra Mondiale per la polizia olandese. E proprio qui sta il senso della stranezza: in teoria, dopo un arresto, l’agente avrebbe potuto tenere costantemente sott’occhio il criminale, in posizione avanzata e inferiore al posto di guida, senza distrarsi troppo dalla guida. Geniale, vero? C’è da chiedersi perché nessuno ci abbia pensato dopo.

Anni 20: Hanomag. Persino Colin Chapman si sarebbe inchinato davanti a un tentativo così estremo di coniugare la potenza alla leggerezza. Questa Hanomag fu costruita in Germania dal 1924 al 1928 con carrozzeria di vimini intrecciato, un materiale di gran classe che in futuro sarebbe stato riservato solo agli interni delle spiaggine. Era leggera e a buon mercato: con quello che pesava, il motore da 500 cc raffreddato a liquido faceva faville. Forse anche per questo, degli esemplari costruiti oggi ne restano pochissimi – e quasi tutti convertiti alla carrozzeria di acciaio.

Anni 30: Kaiser. È assodato che fino agli anni Cinquanta, il design auto codificato come lo intendiamo oggi non esistesse. Nel senso che sì, c’era qualcuno che si occupava di dare forma al totem industriale del secolo, ma si prendeva ispirazione dal preesistente: le carrozze a cavalli prima, poi i treni e l’aeronautica, persino l’arte. Probabilmente anche i superalcolici, a giudicare da certe fotografie in bianco e nero che ci sono state tramandate. Per disegnare la Kaiser, prodotta a Oeschersleben nel 1935, si prese alla lettera la lezione aerodinamica degli aerei. Tre ruote e posto singolo, esattamente come un monoplano, pronta a decollare ai cento orari di velocità massima grazie al motore NSU – almeno questo non era stellare – da 200 a 600 cc. I costi di produzione altissimi e il buonsenso ne decretarono l’atterraggio di emergenza.

Anni 40: Gatso Type 4000. A proposito di ispirazione aeronautica, nei tempi in cui la supremazia del cielo cambiò i destini del mondo, il pilota di rally olandese Maurice “Maus” Gatsonides trasferì la carlinga di un aereo su un sinuoso corpo in alluminio da coupé ultrafuturistica. Fra le stranezze, colpiscono i tre fanali e la bolla di Perspex che si ribaltava per permetere l’ingresso ai quattro – quattro! – passeggeri. Chissà se la cifra 4000 era un riferimento all’altezza massima che poteva raggiungere. Per la cronaca, Gatsonides vinse il Rally di Montecarlo del 1953 su una Ford Zephyr. Se la sua Gatso vi sembra divertente, l’altra grande invenzione che ha consegnato l’olandese alla storia lo è molto meno: è a lui che dobbiamo l’autovelox.

Anni 50: Trabant P50. Più che strana, per un paio di generazioni di guidatori tedeschi la Trabant è stata l’archetipo della miseria e della depressione socialista. Per averla occorreva aspettare per anni, finché si riceveva l’ambitissima lettera che informava l’assegnazione di una vetturetta dimessa. Spacciata oltraggiosamente per limousine, in realtà aveva la carrozzeria in Duroplast – un impasto di resine e di scarti della lavorazione del cotone, vanto e orgoglio della tecnologia del blocco orientale – e il motore 2 tempi più impestante della storia. A sua discolpa, va detto che fu progettata quando si doveva ottenere molto con poco, anzi pochissimo. Anche il materiale, che non era plastica e nemmeno tanto duro, precorse in qualche modo le alternative ai metalli per le carrozzerie. Go, Trabbi!

Anni 60: Citroën 2CV 4×4 Sahara. Nel celebrare il ritorno di fiamma della Panda 4×4 come icona radical-chic, ricodiamo che una ventina d’anni prima in Francia era già in vendita una piccola utilitaria a trazione integrale che non si accontentava di trasportare un contadino con un paniere d’uova sul sedile del passeggero su un campo accidentato, senza romperne nemmeno una. La Citroën 2CV 4×4 Sahara era il simbolo del legame coloniale e della voglia di avventura che univa la Francia e il Nordafrica. L’intuizione di un concessionario del Double Chevron, un certo monsieur Bonnafous, fu ripresa dalla Casa per dotare la Compagnie Française des Pétroles (più tardi nota come Total), le Poste ed il Corpo forestale di una piccola tout-terrain. La trazione integrale fu ottenuta aggiungendo un secondo motore al retrotreno. Ciscuno disponeva di un suo cambio/differenziale azionati da una unica leva. Anche l’acceleratore era unito in un unico comando a pedale, mentre i freni erano rinforzati. Piccola e irriducibile, la 2CV 4×4 Sahara fu venduta in 694 esemplari dal 1962 al ’66.

Anni 70: Rapport Excelsior. Oggi si parla di SUV di lusso, ma prima? L’unico modo per affrontare il fuoristrada in una confortevole dimensione residenziale era ordinare una Rapport Excelsior, un incredibile ibrido di Range Rover e Rolls Royce con tanto di finta griglia sul frontale. Inglese che più inglese non si può, questa eccentrica limousine da offroad era dotata di capote ripiegabile e antenna radiotelefonica. L’unico problema che un eccentrico gentiluomo doveva porsi con la Excelsior era come ordinarla: bastava chiedere le cose più assurde, dagli interni di velluto alle sei ruote: al resto pensava il designer Chris Humberstone. Funzionò al punto che la Rapport aprì uno showroom a Park Lane, in pieno centro di Londra.

Anni 80: Autobianchi Y10 Turbo. Annoverata d’ufficio nel segmento “bare volanti”, la Y10 Turbo è figlia della spensieratezza incurante dei tempi in cui Milano era una città da bere, anziché da evitare. Nella miriade di versioni che contraddistinsero l’elegantissimo scatolino della Autobianchi, la Turbo era destinata a colpire al cuore l’utenza maschile più sportiva con un sistema di sovralimentazione che ricordava quello delle F1, naturalmente in miniatura. Per questo il tranquillo motore aspirato da 1.049 cc era stato scombussolato con il carburatore Weber DMTR esagerato e la turbina IHI con intercooler, che trasformava Clark Kent in Supercar portando la potenza da 56 a 85 cv. I profili rossi, il fatidico fregio Turbo, il maxi-scaricozzo e gli interni sportivi erano segno di distinzione davanti a qualsiasi bar. Ma ci voleva fegato per fare i 180 con la tenuta di strada della Y10, che montava ancora i freni posteriori a tamburo. Bella rossa, ancora meglio nera, imprescindibile nell’edizione speciale con livrea Martini.

Anni 90: Risciò Pasquali. Se c’è una cosa di cui non fa difetto l’Italia è la gente che guarda avanti, con coraggio e visione. Il Risciò era un “triciclo elettrico da città” costruito dalla Pasquali Macchine Agricole di Calenzano. Più che una versione cittadina degli ubiqui Apecar, fra i pochi veicoli in grado di percorrere gli stretti vicoli del centro storico, questo ovetto giallo e silenzioso che anticipò i grandi temi della mobilità urbana dei vent’anni successivi. Liberato dai vincoli imposti del motore endotermico, il Risciò aveva contenuto le dimensioni in modo da occupare un paio di stalli riservati agli scooter. La tecnologia elettrica era ancora agli albori, quindi le quattro batterie da 6V e 240 Ah montate in serie permettevano di percorrere non più di 45 km a 40 orari di velocità massima. Buffo vero? Bisognerebbe chiedere a Eric Guillon, il cartoonist francese che ha inventato i Minions, se per caso fosse mai passato da Firenze una ventina d’anni fa…

Anni Zero. Carver One. Due ruote spostano l’anima, ma con quattro non ti spettini. Meglio l’auto, meglio la moto? Meglio la Carver One, che di ruote ne ha tre ed è stata uno dei tentativi di compromesso più originali e velleitari di incrociare le due tipologie di veicoli. A differenza delle vetturette come la Isetta o il Sulky della Casalini, la Carver One può vantare un comportamento dinamico invidiabile, perché l’anteriore piega come una moto fino a 45°, ma è comandato da un volante. La sensazione di guida risulta quindi più aeronautica che stradale. Anche le dimensioni non eccedono quelle di una touring Harley-Davidson, che peraltro ha in gamma anche il triciclo CVO Tri Glide. Costruita nel 2007 dalla società olandese Carver in collaborazione con la Pro Drive, si può prendere il manubrio – pardon, il volante della Carver One con una patente automobilistica europea, ma in alcuni Stati è omologata come motociclo. In ogni caso, prestazioni di tutto rispetto: il motore 4 cilindri in linea da 660 cc 16 valvole sovralimentato butta sul piatto 185 kmh di velocità massima e 100 Nm di coppia a 3.200 giri.

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