Pare che 180, dico cen-tot-tan-ta Alfa Romeo “Brera” nuove di fabbrica siano state avviate alla rottamazione senza neppure passare dai concessionari. “Pare” è d’obbligo: una notizia così non è di quelle che la Casa sbandiera nei comunicati stampa come quando lancia un restyling di fine serie; anzi, la tiene segreta. Ma le voci girano, perché non è possibile far sparire centinaia di macchine senza che nessuno se ne accorga. Il perché della strage ci sfugge. Certo è che le eccedenze si sono accumulate nei depositi. Indicativo il fatto che in settembre il modello fosse ancora presente sul listino di Quattroruote, sebbene fosse uscito di produzione parecchio prima. Un caso di longevità post mortem che conferma la difficoltà di piazzare la “Brera” sul mercato (in sei anni ne sono state immatricolate in Italia 6921, ma ce n’è ancora qualcuna dai concessionari).
Il prototipo è un capolavoro
La ragione del flop è presto detta: la “Brera” che entra in produzione nel 2005 ha poco in comune con la concept car che, con lo stesso nome, è stata presentata al Salone di Ginevra del 2002. Il prototipo aveva entusiasmato gli alfisti. Come un alchimista, Giugiaro era riuscito a distillare il fascino delle più belle Alfa Romeo del passato e a ficcarcelo dentro. Le proporzioni, le curve dei parafanghi, ogni dettaglio conteneva un messaggio subliminale che evocava nel pubblico, a seconda della prospettiva, ora la “TZ 2” di Zagato, ora la “Canguro” di Bertone, ora la “33” stradale. Poi c’erano i contenuti: il motore longitudinale a otto cilindri di quattro litri, la trazione posteriore, i 400 cavalli… Un’Alfa così non si vedeva dai tempi della “Montreal”, ultima “ottovù” del Biscione.
La vettura di serie è un’altra cosa
La “Brera” va in produzione nel 2005. Certo, nessuno si aspetta che il modello di serie replichi tutte le soluzioni proposte sulla concept, ma neanche che sia una macchina completamente diversa. Invece dell’otto cilindri, nel cofano ci sono ora un quattro cilindri di 2,2 litri oppure un V6 di 3,2 litri prodotto in Australia; invece che longitudinale, il motore è trasversale; invece che posteriore, la trazione è anteriore o integrale (col 6 cilindri). Neppure la linea è la stessa: la diversa impostazione meccanica fa crescere a dismisura lo sbalzo anteriore, l’abitacolo scorre in avanti, le felici intuizioni di Giugiaro si banalizzano in una carrozzeria soltanto gradevole. Infatti, è prevalsa la logica delle sinergie e si è adottata la piattaforma “Premium”, realizzata in collaborazione con General Motors e utilizzata anche per la “Spider” e per la “159” berlina e station wagon. La scelta del pianale comporta quella dei motori: il quattro cilindri di 2,2 litri e il V6 australiano disposti in senso trasversale. Risultato: una coupé che, nella versione integrale, pesa sui 1550 kg. Mettici poi che il V6 “va poco” e “beve” tanto e il quadro è completo: vi sono tutte le condizioni necessarie e sufficienti per l’insuccesso immediato. Tanto che a inizio 2006 si cerca di rimediare all’inadeguatezza del V6 col 5 cilindri turbodiesel 2,4 litri e col “1750” turbo, evoluzione dei vecchi “Pratola Serra” con basamento in ghisa degli anni Novanta, capaci comunque di 200 CV. Troppo tardi: l’immagine del modello è compromessa, la crisi economica internazionale fa il resto.
Non lascia eredi
Entrata in scena con tanto clamore, la “Brera” ne è uscita in punta di piedi (e senza eredi), lasciando un buon numero di vetture sul terreno, o meglio nei parcheggi del gruppo torinese e della Pininfarina, che produceva anche le carrozzerie della “Spider” (2984 gli esemplari immatricolati in Italia). Alla fine, 180 macchine nuove sarebbero state mandate alla rottamazione. Peccato che nessuno abbia pensato, a quel punto, di regalarne qualcuna ai principali musei italiani e stranieri, cominciando da quello di Torino. Forse, della “Brera” si voleva cancellare anche il ricordo.
Raffaele Laurenzi