Nella grande tempesta degli anni ’40 nacque anche la Jeep. Eppure, a guardar bene, già nel 1938 i sovietici avevano messo insieme una vera 4×4: la GAZ 61. Poi, col modello 64 e una delle tante operazioni di “ingegneria alla rovescia” si fecero la “loro” Willys. Ma non è un caso isolato. La preistoria dei fuoristrada pullula di idee innovative, ripensate, copiate e talvolta contrabbandate a cavallo del mondo, dei grandi avvenimenti e della moda.
Tutti sanno, almeno a grandi linee, cosa successe a Pearl Harbour il 7 dicembre del 1941. Quasi nessuno, invece, ricorda che nove mesi prima di risolversi ad entrare in guerra a fianco dell’Inghilterra (la Francia aveva ammainato la bandiera da un pezzo e l’Unione Sovietica avrebbe cambiato campo nell’estate) gli Stati Uniti stavano già armando i futuri alleati. Una grande, operazione-regalo denominata Lend Lease (o Legge 77-11), che diede avvio alla fornitura gratuita di 400.000 veicoli da trasporto. E poi 12.000 blindati, 11.400 aeroplani, 2.000 locomotive e molto altro alle nazioni amiche, che stavano contribuendo strategicamente alla sicurezza dell’America. Il vento tempestoso della guerra riporta a galla anche uno dei primi SUV mai comparsi sulla Terra, forse il capostipite – evoluto in circostanze completamente diverse – di quella la trazione integrale che è diventata uno dei must della società dei consumi.
L’antesignana. Ma torniamo ai fatti. La Jeep della guerra (Bantam, Willys o Ford non importa) è concordemente accettata come l’anello mancante del 4×4, il proto-veicolo che portato l’uomo a muoversi in un modo diverso. Per la sua qualità progettuale, la sua efficienza e il numero notevolissimo di esemplari in cui si è moltiplicato: 643.000 solo negli anni della guerra. Dei quattrocentomila veicoli leggeri spediti agli alleati di cui si diceva prima, 51.000 furono le sole Jeep dirette in Unione Sovietica. Questa profusione di aiuti interessati (se il fronte orientale avesse ceduto, la vittoria sarebbe costata ben altri sacrifici) e la piccola Jeep in particolare, sono il fattore scatenante della famiglia sovietica dei SUV. Un ramo prolifico e antico, una specie di “veicolo di Neanderthal”, anche per il modo in cui si è evoluto e sopravvive tutt’oggi.
Emulazione. Come per molti altri prodotti occidentali, dagli aerei alle macchine fotografiche, anche la Jeep fu oggetto di un caso di reverse engineering: quella branca della progettazione che attinge ai prodotti esistenti, fatti da altri, invece che alle idee nuove. E’ una pratica abbastanza diffusa nei paesi emergenti, che ebbe successo – anche ideologico – in Giappone e poi URSS, Cina, India e diversi altri stati. Il prodotto preso a modello viene smontato, studiato, riprodotto pezzo a pezzo, per trarne uno clone, senza avere la capacità creativa per inventarlo e pagare i costi di sviluppo. La cosa sembra facile, ma non lo è mica tanto. Basti pensare a quanto deve essere successo agli uomini di Andrej Tupolev – uno dei massimi ingegneri aeronautici della storia – quando Stalin, nel 1944, chiese loro di creare un’intera armata di bombardieri partendo da una Fortezza volante B-29 americana, atterrata in Siberia per un guasto. Chi pensa di saper convertire un aereo nato in piedi e pollici in sistema metrico, faccia un passo! E non menzioniamo nemmeno il nodo cruciale della componentistica.
La nascita di un mito. Per gli ingegneri della GAZ (uno degli antenati della UAZ) copiare la Jeep Willys fu molto più facile. E infatti, in quel di Gorky (che è la G del marchio; le altre lettere, come successe a Torino, stanno per Fabbrica Automobili) ne trassero in poco più di un mese la prima gemella, battezzata “modello 64”. La gemella, rispetto all’originale, era maggiorata, con un quattro cilindri di 3.2 litri e una velocità su strada di quasi 100 km/h. Dopo i primi seicento esemplari si passò a una versione più evoluta, la GAZ 67, prodotta in ventimila pezzi, sopravvissuta nell’Armata Rossa fino alla guerra in Indocina e, tra i cacciatori della Tajga, ai giorni nostri. Anche il primo dei “cari leader” della Corea del Nord, Kim Il-sung ne ereditò alcune centinaia per le sue truppe adoranti.
Dai reggimenti ai musei. La preistoria dei fuoristrada, nati militari e divenuti civili, si perde quindi negli anni della guerra e, poi, della Guerra Fredda. I vari MPV americani, divenuti CJ con varie numerazioni e poi Cherokee, Quadra Track, Renegade eccetera, sono la ramificazione “sapiens” – negli anni ‘60 e ’70 – della geniale Willys. E questa, vale la pena ricordarlo, fu la prima auto – insieme alla Cisitalia 202 e ad altre sei vetture – a entrare in un tempio dell’arte moderna, il celebre MoMa di New York in una mostra mai dimenticata del 1951. Di gloria in gloria, dall’altra parte dell’oceano, la prima Land Rover dei fratelli Wilks nacque su un telaio della Jeep. Era dedicata ai contadini e noni ai soldati, ma di fatto ci marciò sopra per trentacinque anni.
4×4 d’Oltrecortina. Poco più tardi, dalle officine di Gorky, iniziavano ad uscire i nuovi GAZ 69 (il veicolo militare tipo del blocco socialista, fino alla guerra in Afghanistan, riprodotto in 630.000 esemplari) . Era anche lui imparentato con i mezzi americani degli anni ‘40, ma aveva rubato alcune idee anche alle “K” e “S” Wagen tedesche, catturate durante la Grande Guerra Patriottica. E dopo il GAZ 69, nel 1972, ecco finalmente il celebre UAZ 469 e derivati, la “Land Rover del mujik”, che conosciamo bene anche in Italia, è ancora in vendita e conta un esercito di fan in tutto il mondo.