Nel 1926 a Borgo Panigale, appena fuori Bologna, nasceva una fabbrica destinata a entrare nella storia del motociclismo. E poco importa se all’inizio producesse transistor, apparecchiature radio e calcolatrici. Nel Dopoguerra convertì la sua produzione e motorizzò l’Italia. Ecco come
Per una piccola azienda italiana, il 2016 è stato un anno meraviglioso per molti motivi. Ha superato il proprio record di moto prodotte (oltre 55mila), ha festeggiato 90 anni di vita ed è tornata a sorridere grazie a due vittorie nel Motomondiale che hanno interrotto un digiuno lungo sei anni. Stiamo parlando di Ducati, realtà che sta vivendo un momento magico da tutti i punti di vista. Non male per una Casa costruttrice che, all’incirca 30 anni fa, era alla canna del gas, strangolata dalle ferree logiche delle Partecipazioni statali.
A ben vedere, i 90 anni di Ducati sono stati un continuo saliscendi. E i suoi inizi furono la cosa più distante da quanto ci si potrebbe aspettare: l’azienda fondata nel 1926 a Borgo Panigale (Bologna) dai fratelli Cavalieri Ducati infatti si occupava dello sviluppo di sistemi per la comunicazione radio. La produzione venne ampliata con la realizzazione delle prime apparecchiature radiofoniche, antenne radio, i primi sistemi di comunicazione interfonica (denominati “Dufono”), proiettori cinematografici, calcolatrici (Duconta) e rasoi elettrici (Raselet).
Poi la guerra, i pesanti bombardamenti che distruggono lo stabilimento e un nuovo inizio, grazie all’intuizione di sfruttare il bisogno di mobilità di un Paese messo in ginocchio dal conflitto mondiale. Il primo motorino ausiliario (il Cucciolo, del 1946), prodotto in licenza dalla torinese Siata, è un successo incredibile e proietta la Ducati nel mondo delle corse.
Nel 1954 l’azienda assume il giovane ingegnere Fabio Taglioni il quale, con le sue idee rivoluzionarie, segnerà in modo indelebile la storia non solo della Casa emiliana, ma dell’intero motociclismo. Fu lui per primo nel 1956 ad applicare a un motore da moto il sistema desmodromico di distribuzione. Taglioni voleva che l’alzata e la chiusura delle valvole fosse vincolata a un organo di comando. Un sistema di distribuzione che permetteva migliori diagrammi di distribuzione (minor incrocio tra le valvole di aspirazione e scarico), una maggiore alzata e tempo di apertura delle valvole. E, soprattutto, era indistruttibile agli alti regimi.
Si chiamava distribuzione desmodromica (dal greco desmos, ossia vincolo, e dromos, corsa). Nessuno la usava – eccetto in Formula 1, dove la Mercedes W196 aveva dominato alcuni mondiali grazie a questa soluzione tecnica. Taglioni ci credette fino in fondo e i risultati gli hanno dato ragione. Il debutto avvenne sulla GP125 ad Anderstorp, nel GP di Svezia di 60 anni fa. Il motore di quella 125 da corsa aveva una distribuzione desmodromica a tre alberi a camme in testa mossi da albero verticale e coppia conica. Gianni Degli Antoni arrivò davanti a tutti e da allora il sistema desmo diventò un’esclusiva delle rosse di Borgo Panigale.
Un marchio di fabbrica che in pista dura da sei decenni e ha regalato a Ducati 14 titoli iridati in Superbike, uno in MotoGP e alcune vittorie storiche, come la 200 Miglia di Imola del 1972 con Paul Smart. E soprattutto il fascino dell’unicità in un paddock dominato dalle valvole pneumatiche. Sulle moto di produzione invece il sistema desmodromico (costoso da realizzare e ingegnerizzare) arrivò solamente nel 1971, quando Taglioni realizza la prima moto stradale Ducati con motore bicilindrico: la 750 GT.
Nel 1979 l’ingegnere di Lugo di Romagna realizza l’ennesima pietra miliare, ovvero la prima moto con telaio a traliccio com’è conosciuto oggi: la 600 TT2 da corsa. Ma i tempi stavano cambiando: a partire dal 1975 la Ducati passò sotto il controllo dello Stato italiano tramite l’EFIM, che cedette l’azienda nel 1978 alla VM Motori (anch’essa sotto controllo statale, facendo all’epoca parte della galassia Finmeccanica) che si occupava soprattutto di motori diesel industriali e automobilistici. Questo, unito alle difficoltà sul mercato patite dalla Casa per mano delle Case giapponesi (specialmente quello statunitense), videro l’azienda concentrarsi sulla produzione di motori diesel per conto della controllante e a toglier le moto dalla lista delle priorità.
La svolta arriva nel 1985, quando la Ducati è rilevata da Claudio e Gianfranco Castiglioni ed entra a far parte del Gruppo Cagiva. Aumentano le risorse destinate allo sviluppo dei prodotti e il risultato è una serie di vittorie nel Campionato del Mondo Superbike, il mondiale riservato alle moto derivate dalla serie iniziato nel 1988.
In quello stesso anno gli ingegneri Massimo Bordi e Gianluigi Mengoli realizzano il primo motore a quattro valvole, quello della 851 tricolore nato dall’esperienza maturata dalla 748 IE Bol d’Or, la prima moto da corsa Ducati a quattro valvole del 1986. Il rapporto tra Ducati e il mondo delle corse di fa sempre più serrato e vincente.
Nel 1988 arriva la prima vittoria in Superbike conquistata da Marco Lucchinelli, preludio di quei 17 titoli Costruttori e 14 Titoli Piloti che in totale, ad oggi, completano l’Albo d’Oro Ducati in questo combattuto e prestigioso campionato del mondo. Nel 2003 Ducati entra anche nel Campionato Mondiale MotoGP dove, dopo soli quattro anni, nel 2007 conquista il titolo iridato Costruttori e Piloti con Casey Stoner. L’australiano è stato il degno epigono di una stirpe di piloti vincenti “in rosso”, da Giuliano Maoggi a Franco Farnè, fino a Leopoldo Tartarini o, in tempi più recenti, Mike Hailwood.
Anche la produzione di serie ha regalato alcuni capolavori e successi commerciali che hanno proiettato la Casa emiliana a rivaleggiare alla pari coi colossi giapponesi. Da un lato Ducati ha inventato nuovi segmenti fino ad allora inesistenti (prima della Monster lanciata nel 1993, la moto naked non era conosciuta), dall’altro ha estremizzato all’inverosimile il lavoro di ricerca e affinamento della potenza motoristica lanciando continue evoluzioni delle sue superbike stradali, come le ultime e incredibili 1299 Panigale. Un lavoro che è possibile grazie al fatto di avere alle spalle, dal 2012, un colosso come Audi, che ha rilevato il marchio dalla Investindustrial.
Ogni nuova Ducati è stato un pezzo della storia d’Italia che cambiava. Noi abbiamo scelto le nostre cinque pietre miliari della fabbrica bolognese. E le vostre preferite, quali sono?
CUCCIOLO (1946)
Con 0,8 Cv di potenza e 48cc di cilindrata, questo piccolo motorino ausiliario rappresenta il primo vagito motoristico della Ducati. Tutto parte da qui. Era facile da aggiustare, consumava pochissimo e poteva essere montato su qualunque veicolo a due ruote. Con oltre 500mila esemplari commercializzati in 12 anni, è il primo vero successo Ducati. E la sua diffusione contribuì al pari di Vespa a motorizzare l’Italia.
SCRAMBLER 450 (1968)
Fortemente voluta dai fratelli Berliner, importatori di Ducati negli Stati Uniti, è la prima moto americana e internazionale prodotta da Ducati. E diventa un successo clamoroso nelle tre cilindrate 250, 350 e 400 sia grazie alla linea accattivante, sia grazie alla ricetta di moto tuttoterreno, una stradale col manubrio alto da enduro. Un’icona così forte che Ducati l’ha riproposta (riscuotendo il favore del pubblico) due anni fa, in salsa moderna.
750 GT (1971)
Se pensate a una Ducati classica, il vostro cervello vi suggerisce per forza questa come prima immagine. Bicilindrico a L longitudinale da 758 cmc, telaio a doppia culla aperta, linee pulite: la risposta Ducati alle maxi italiane dell’epoca uscì dalla matita di Fabio Taglioni. E nel 1974 arriverà la ancor più mitica versione SS, edizione stradale della moto “da sparo” che dominavano le competizioni, con testata desmodromica.
851 SBK STRADA (1988)
Non ce ne vogliano gli amanti delle Panigale. Non se ne abbia a male chi stravede per la super-iper-mega tecnologia delle ultime creazioni Ducati. Questa è la moto con la M maiuscola, quelle che ha sfidato le convenzioni e per la prima volta ha portato realmente in strada una moto destinata alle derivate di serie. La prima Superbike con la targa nasce dall’idea di Massimo Bordi, creatore di un motore fantastico, un bicilindrico a L con testata bialbero 4 valvole (detta anche Desmoquattro) e 88,3 Cv di potenza, che la spingevano fino a 235 km/h. Un motore che faceva impallidire i quattro cilindri giapponesi.
MONSTER (1992)
Firmata dal designer spagnolo Miguel Paluzzi, questa moto, lanciata a Colonia nel 1992, inventa la naked. Facile, di media cilindrata, snella nel traffico e sufficientemente performante (73,4 Cv per una velocità massima di 190 km/h) consente di divertirsi in ogni situazione. La Monster riscosse sin da subito un successo trasversale sia tra gli smanettoni (che si divertivano a metterci mano e modificarla) sia tra le donne (che ne apprezzavano l’agilità) sia tra i motociclisti di ritorno, in cerca di una moto che facesse tornare loro la voglia delle due ruote. Da allora non è mai uscita di produzione, si è reinventata fino a diventare il “mostro” 1200 cmc di oggi. Un autentico mito.
Marco Gentili