L’anno scorso le celebrazioni per i sessant’anni della Mini Minor hanno riempito autodromi e musei, i club dei possessori hanno dato sfoggio con le loro carovane e anche la Mini-BMW, che sta alla Mini originale come un castoro a un criceto, ha fatto suonare la grancassa. Ma, a ben vedere, non sono sempre stati anni facili, quelli della piccola inglese. E se non proprio una tempesta, qualche bel fulmine è venuto a turbare la storia del capolavoro di Alec Issigonis.
Uno dei temporali più pesanti scoppiò alla fine degli anni ‘60, quando la vera Mini aveva già una certa età e i suoi progettisti speravano in una degna sostituta. Alec Issigonis, nel 1968, si era autosospeso dal ruolo di capo progettista per concentrarsi sulla Mini del futuro, aveva messo insieme una squadra di giovani ingegneri e in dieci mesi era pronto un prototipo. Ma il risultato lodevole – battezzato “9X” e che siamo andati a rivedere al British Motor Museum di Gaydon – non aveva avuto fortuna. Eppure la Mini “due punto zero”, razionale ma non seducente nel design, era un’auto tutta nuova e migliore della capostipite. Pur essendo più corta e leggera, aveva maggiore abitabilità, più vetro e – novità per l’epoca – un portellone posteriore. Anche la meccanica era stata riprogettata, con due opzioni (750 e 1.000 cc) dotate di albero a camme in testa ed elementi in alluminio, per arrivare a correre con 60 hp contro i 40 della vecchia Mini.
Una fusione infelice. Cosa uccise allora, dopo vari tentennamenti, la moderna 9X, ultima piccola del grande inventore? La risposta è sempre la stessa, quella che abbiamo narrato con ampio spazio in una puntata della rubrica apparsa in maggio. Fu il malessere dell’industria automobilistica nazionale, prima dopo e durante il grande “merging” della British Leyland. I manager del Gruppo, poco lungimiranti e afflitti da problemi di convivenza, decisero che la vecchia Mini vendeva ancora troppo bene per investire centinaia di milioni di sterline e sviluppare un’erede. E comunque, se anche i soldi ci fossero stati (cosa che non era) pensarono che non sarebbe stato il caso di investirli su una piccola vettura capace di generare, in proporzione, piccoli profitti. Decisero di fare altro e, probabilmente, fecero peggio.
La Mini irlandese. Questo è stato dunque il temporale strategico che ha fatto perdere alla Mini il mercato dei suoi estimatori. Una platea ormai in frantumi quando la Metro fece finalmente il suo arrivo, un decennio più tardi. Ma nel nostro viaggio nelle isole britanniche siamo tornati sulle tracce di altre tempeste, piccole o grandi, che minacciarono la storia della Mini. Attraversato il Canale di San Giorgio e sbarcati a Dublino è d’obbligo rendere omaggio a una delle tante fabbriche, sparse nel mondo, che assemblava le Mini su licenza. O a quel che ne resta. Per capirne i contorni bisogna tornare all’Irlanda dei primi anni ‘60, un Paese povero e arretrato, che porta ancora i segni della grande emigrazione e ricorda, per certi aspetti, l’abbandono del nostro Sud. Il premier LeMasse ha da poco lanciato un programma di sviluppo per piccole e medie imprese e la cooperazione con l’estero. Tra le altre, alla periferia sud della capitale, è sorta una fabbrica che monta automobili inglesi su licenza e che occuperà un posto speciale nel cuore della gente di Dublino. E’ la Brittain Smith di Portobello road, la casa natale delle Mini irlandesi, che dà da mangiare a quattrocento famiglie ed è, in piccolo, quello che la Innocenti di Lambrate fu per le Mini italiane. Ma di quella tempesta nostrana, con i suoi scheletri ancora in piedi, parleremo un’altra volta.
Cittadina del mondo. Insieme agli stabilimenti d’Australia, del Belgio, di Spagna, Malta, Chile, Sud Africa e di una mezza dozzina di altri paesi, la Brittain Smith riempie il passaporto della prima utilitaria globale. La fabbrica è ancora oggi rimpianta perché quando, nel 1975, fu messa in liquidazione, i contadini poveri, che a fatica erano diventati operai, dovettero nuovamente cambiar mestiere. Gli ultimi particolari di questa storia me li racconta l’ex operaio Ross, oggi portiere di hotel a Dublino, che accoglie i turisti nella sua livrea color lilla. “Le vetture arrivavano smontate in grandi casse di legno, piene di pezzi incartati – ricorda il doorman con gli occhi un po’ umidi – e spesso ne mancavano. Così li prendevamo dalle scatole di altri modelli e le Mini di Dublino venivano tutte diverse, una dall’altra”. La memoria corre a Napoli, dove anche le prime Alfasud uscivano di fabbrica anche loro un po’ un po’ bizzarre. Anche il taxista che mi riporta all’imbarcadero è un esperto di storia locale: “Lavoravo anche io alla fabbrica nel ’63 – racconta il conducente – ma mi erano nati due figli e per arrotondare ero tassista abusivo”. Il gemellaggio Dublino-Pomigliano si stringe.
C’era una volta… E’ ora di partire, anche perché della fabbrica di Portobello Road restano solo i due ingressi, uno trasformato in centro massaggi. Il Canale di San Giorgio è molto agitato, il Galles sotto il diluvio mentre scendiamo verso Birmingham per toccare un altro stabilimento della memoria: quello da dove uscivano le Mini col marchio Rover e le sportive più famose d’Inghilterra, le MG. Solo che anche qui mi devo fermare alla sbarra: sulla palazzina uffici sventola la bandiera cinese. Niente panico: alla Land Rover e alla Jaguar, qualche miglio a nord, batte da tempo il tricolore indiano. Continuiamo verso la nobile Oxford, dove nascono – novecento al giorno, una ogni sessantotto secondi – le Mini perfette dell’era moderna. La fabbrica, ricostruita nel 2000 dai “doktor” della BMW, per la festa dei sessant’anni è addobbata come un transatlantico e c’è anche una piccola mostra. Oltre alle Mini Morris di varie generazioni ecco una fila di celebri e defunte auto: la “Bullnose” e la “Eight” d’anteguerra, la “Minor” anche lei inventata dal maestro Issigonis, la “BMC 1100” disegnata da Pininfarina.
Tempi moderni. Cenere alla cenere: della British motor industry, di cui la guida che mi accompagna sta tessendo i ricordi, è difficile vedere le tracce. Lo aspetto alla fine del tour, quando conclude, raggiante, dicendo che la Mini per Oxford è quello che BMW è per Monaco di Baviera.
– Allora, ogni tanto, conviene vendere – chiedo, confidando sullo humor britannico?
La risposta è condensata in un sorriso a denti stretti.
– E il dopo-Brexit? – tento un affondo – qualcuno pensa che gli europeisti di Monaco, aldilà delle dichiarazioni ufficiali, potrebbero essere meno interessati a produrre da queste parti.
– Lei può ben dirlo – i denti questa volta sono serrati – ma io non posso assolutamente commentare.
Fine del viaggio, tra le nuvole che oscurarono – e potrebbero ancora oscurare – i cieli della Mini. Resta da fare il passeggio obbligatorio tra i college di Oxford. Un biplano Tiger Moth degli anni ‘40, anche lui uscito dalla fabbrica delle Mini in tempi di necessità – sorvola basso le guglie. Era l’aereo scuola degli eroi della battaglia d’Inghilterra. Tutte le teste guardano in alto, gli inglesi commossi, un gruppo di turisti tedeschi sorridenti, io italiano un po’ stranito. I tempi sono cambiati.