Per mandare a picco un transatlantico dovrebbe volerci una “tempesta perfetta”. Eppure il 25 luglio del 1956 non tirava un alito di vento. Con il naufragio dell’Andrea Doria spariva, sul fondo dell’Atlantico, anche una delle show car più estreme, disegnata a Detroit da Virgil Exner e costruita a Torino dai maghi della Ghia.
Nella notte del 25 luglio 1956 la nave passeggeri svedese Stockholm entrò in collisione con il transatlantico italiano Andrea Doria, orgoglio – con la gemella Cristoforo Colombo – della nostra flotta mercantile. Le dieci ore che seguirono, raccontate su tutti i libri di marineria del mondo, sono ricordate come il primo, grande naufragio dell’era elettronica, perché tutto si svolse – ahimè inutilmente – sotto l’occhio del radar. La collisione avvenne 180 miglia a est della nave faro Ambrose, che segnalava l’Isola di Nantucket, alle 23 e 11 ora locale. L’Andrea Doria fu centrata sulla murata di destra dalla prua della Stockholm e, quasi immediatamente, si inclinò di venti gradi, rendendo inutilizzabili metà delle sue scialuppe. La sciagura poteva diventare un altro Titanic, ma così fortunatamente non fu. La Stockholm riuscì persino a far rotta per New York, con la prua semidistrutta. Il fondo dell’Atlantico, insieme alla bella nave italiana, accolse invece i corpi di quarantasei passeggeri e cinque membri dell’equipaggio svedese. Tutti gli altri, oltre duemila persone, furono tratti in salvo.
Un’americana a Torino. La cronaca del naufragio è appassionante e vi invitiamo a correre in libreria e andare a spasso per la Rete a caccia di volumi, documenti, testimonianze e filmati sensazionali. Ma occupandoci noi più di auto che di navi vogliamo dedicare queste righe a una vittima a quattro ruote del celebre disastro: essendo di alluminio e ferro andò a fondo ancor più placidamente, mentre viaggiava nella stiva della Andrea Doria da Torino a Detroit. Era una dream car-nel vero senso del termine (almeno secondo il gusto americano del tempo), ci lascerebbe ancora oggi a bocca aperta e si chiamava Chrysler Norseman.
Una storia avvincente. Gli esperti di car-design ne hanno sicuramente sentito parlare, ma chi al tempo doveva ancora nascere, o magari è addirittura un millennial, potrebbe non ricordare che la carrozzeria Ghia fu molto più dello scudo blu e rosso delle Ford edizione full-optional. Gigi Segre, patron della Ghia dal 1954 al 1963, era il più americano dei carrozzieri italiani. Durante la seconda guerra mondiale era stato un agente dei servizi alleati. Paracadutato in Sicilia, aveva operato oltre le linee per preparare lo sbarco e ingentilire la mafia. Quando gli americani raggiunsero Napoli, lui, che era oriundo della città e membro della comunità israelitica, diventò il loro factotum. Non bisogna quindi stupirsi se poi riuscì, da industriale in tempo di pace, a diventare uno dei consulenti di spicco a cui Detroit affidava le sue auto “impossibili”.
Gli anni d’oro. La Ghia, ben prima della nascita della Norseman, aveva sfornato una generazione di prototipi ed alcune auto di serie speciale. Virgil Exner, il timoniere dello stile Chrysler per buona parte del decennio, era frequente ospite a Torino e pigmalione delle follie che nascevano dalle matite di progettisti come Luigi Savonuzzi e Sergio Sartorelli, e dal fiuto imprenditoriale del loro capo. La Crown Imperial, la stupefacente Gilda a turbina, la famiglia delle Supersonic, la Lincoln Futura erano solo alcune delle creazioni della Ghia degli anni d’oro.
Veniva dal futuro. La Norseman dove essere l’automobile più automatizzata del mondo, un concept futuribile nella forma quanto nei contenuti, nei gadget visibili e invisibili. L’elemento decisamente vistoso, progettato da Exner e Brownlie, era comunque il tetto. Costruito con il sistema “cantilever” appoggiava unicamente sui montante posteriore, essendo privo di privo di altri piantoni e sostegni. La sensazione interna era di una visibilità ininterrotta, panoramica perché anche i raccordi tra parabrezza e finestrini erano quasi impercettibili. Ciò detto tutto il resto del corpo vettura – pur realizzato in alluminio e carenato nel sottoscocca – era di un peso ottico che a noi risulta difficilmente accettabile.
Coggiola, il luminare. Le sagome sovrabbondanti, la mole, la quantità di cromo e appendici sono agli antipodi del gusto moderno e, per essere comprese, devono essere contestualizzate nella cultura – non solo automobilistica – dell’America del tempo. La Norseman aveva però altro sotto il suo tetto a sbalzo, che uno dei tecnici più brillanti della Ghia, Sergio Coggiola, aveva reso sicuro grazie a dei tiranti occultati. C’erano il lunotto elettrico a scomparsa, che si ritraeva nel padiglione, i sedili anteriori con telecomando, che ruotavano elettricamente anche sull’asse verticale, per facilitare l’accesso al divano posteriore. E poi cinture di sicurezza che sparivano nel tunnel, il cambio automatico con i bottoni al centro dello sterzo e i fari a movimento elettrico, coperti da palpebre.
Maledetta nebbia. Ma tutto questo non poterono ammirare né i visitatori dei Saloni americani, previsti nell’autunno, e nemmeno Exner e Brownlie, ideatori del costosissimo gioiello e che lo attendevano oltreoceano, dopo una gestazione durata quindici mesi. Imbarcata a Genova, l’auto impossibile della Chrysler iniziò la sua traversata e per cinque giorni tutto filò liscio. Ma dal pomeriggio del 25 luglio la nebbia cominciò a calare sull’Atlantico settentrionale. Nella notte le due navi, a piena velocità, si videro sui radar ma non intrapresero manovre chiare e decisive di disimpegno.
Tutto quella notte. In plancia sulla Stockholm c’era un ufficiale poco esperto, che ebbe difficoltà a interpretare gli strumenti. Ma anche il comandante in seconda del Doria pare non brillò per capacità di iniziativa e di navigazione strumentale. Di fatto, indugiando sulle procedure e sulle mosse dell’altro, si giunse a una distanza talmente ridotta da rendere impossibile scampare. La vicenda, per quanto passata in giudicato, è ancora discussa a distanza di sessant’anni, con la responsabilità del giovane ufficiale dello Stockholm in evidenza, ma ripartita – secondo altri critici – su entrambi gli equipaggi.