Gli anni 90 per la Volvo sono uno spartiacque: se, da un lato, c’è un’icona come la 850 T5 station wagon che porta orgogliosamente alta la bandiera dei “mattoni volanti”, progressivamente il design del marchio scandinavo si apre a inedite morbidezze, che non si vedevano dagli anni 60. Prima auto del nuovo corso è la S40, lanciata nel settembre 1995 e seguita, pochi mesi dopo, dalla V40, ovvero la versione station wagon, che va a coprire un vuoto importante nella gamma, in quanto la serie 400 che era chiamata a sostituire, era stata declinata solo in versione 440 con portellone posteriore e 460 a tre volumi.
Taglia media. Risultato di un progetto congiunto Volvo-Mitsubishi, che prevedeva una piattaforma comune (sita nello stabilimento NedCar in Olanda), S40 e V40 entrano nel segmento delle medie, quelle che in Europa producono volumi elevati. Con dimensioni contenute rispetto agli standard del marchio (4,48 metri di lunghezza per entrambe le varianti di carrozzeria) e una dotazione di sicurezza di prim’ordine – è la prima Volvo a offrire di serie gli airbag laterali -, la S40 prosegue nel solco di affidabilità e razionalità che il pubblico aveva dimostrato di apprezzare del marchio, svecchiandone però decisamente l’immagine. E ottenendo un grande successo di vendite: ben 572.000 esemplari tra il 1995 e il 2006, superati di pochissimo (solo 5.000 unità) dalle V40, che in Italia riscuotono un grande successo e, nel 1996, ricevono addirittura un premio da parte della stampa specializzata come “station wagon più bella del mondo”.
Sa andar forte. Non sono solo design e sicurezza a convincere gli automobilisti, ma anche le prestazioni, perlomeno quelle della S40 Turbo, che prosegue la tradizione delle versioni turbocompresse del brand e che, nel 1998, riesce a vincere con Richard Rydell il BTCC, il campionato britannico riservato alle auto turismo. In pratica riesce a fare meglio della mitica 850 T5 station wagon ed entra di diritto tra le Volvo da corsa più veloci, aggiungendo un pizzico di pepe all’immagine, tutto sommato decisamente tranquillizzante, della S40.
Quota 200 CV. La S40 T4 montava inizialmente un 4 cilindri sovralimentato di 1.855 cm³ da 200 cavalli, utilizzato solo per due anni e poi sostituito da un’evoluzione del B4204T montato sulla 2.0 T (1.948 cm³), a sua volta da 200 cavalli. Il primo permetteva di raggiungere i 235 km/h e di coprire lo 0-100 in 7,3 secondi, senza che l’aspetto esterno lasciasse trapelare granché: nessuno spoiler o altre appendici aerodinamiche, cerchi di lega molto sobri e nessun colore esagerato, tanto che, se non fosse stato per la scritta T4 e il terminale di scarico dal diametro maggiore, la versione sportiva si sarebbe potuta confondere con un’anonima sorella diesel.
Look discreto. All’interno, stessa storia: nessuna concessione alla sportività, se non nel rivestimento dei sedili, che poteva essere misto pelle-tessuto. Insomma, un’auto che puntava tutto sull’understatement, con prestazioni convincenti, ma senza quel pizzico di follia che la Volvo aveva saputo instillare solo pochi anni prima con la 850. Con queste premesse non c’è da sorprendersi se la stragrande maggioranza delle S40 e V40 che sono state vendute in Italia aveva sotto il cofano motori a gasolio, oppure l’1.8 o il 2.0 aspirati. Questo rende le T4 abbastanza rare, anche se con valutazioni basse (3.200 euro, per un esemplare molto in ordine), almeno finora, dimostrazione evidente che la sobrietà non paga nemmeno con le algide svedesi.