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Test Renault Clio Sport V6 (2003-2005)

È già abbastanza raro inquadrare una Renault Clio V6, ma due? C’è da chiudere gli occhi, sfregarseli, riaprirli e mettere a fuoco la scena. È tutto vero, eccole lì: una Phase 1 grigia metallizzata accanto alla Phase 2 nera con impercettibili riflflessi dorati. Una coppia di sorelle terribili, dalla verve progettuale e con una capacità di sorprendere che, oggi, te le sogni. Scordatevi la Clio Williams: per quanto quella fosse sportiveggiante, qui si va ben oltre i cerchi in lega in tinta oro e i 2 litri di cilindrata. Queste “Superclio” sono figlie di una stagione con le bollicine, in cui c’era ancora spazio per stappare follie, di quelle buone. E millesimate: se è così difficile avvistarle, le V6, è perché sono state costruite in serie limitata e numerata, con tanto di targhetta identificativa: 1513 della prima serie, 1309 della seconda. Come indica la sigla, entrambe sono accomunate dal motore V6 ESL di 2946 cc e dall’impostazione “tutto dietro”, con il motore nell’abitacolo. Ricorda qualcosa? Non serve andare tanto lontano: la Clio V6 è diretta discendente della R5 Turbo, un’altra francesina con il peccato originale, che del modello di serie conserva solo la forma.

C’era pure il campionato. Per quanto alla Clio V6 sia stato riservato un apposito trofeo monomarca, disputato fra il 1999 e il 2001, la sua ragion d’essere non sta nelle corse tout court. Tantomeno nei rally. Si tratta, piuttosto, di un’affermazione e insieme di una conferma: quando vogliamo, noi di Renault siamo in grado di sovralimentare di spirito sportivo i nostri modelli di maggior successo. Anche un’innocua berlina metropolitana, reclamizzata con una modella al volante.

Il più potente del gruppo. Tutto dietro, si diceva: la trazione e il motore piazzato in posizione centrale-posteriore eliminando il divanetto, alle spalle di guidatore e passeggero. Il V6 deriva dalla piattaforma L7X, frutto dell’alleanza fra Renault e il gruppo Psa e dell’ingente investimento finanziario che la Casa della Losanga ha incluso in un piano da ben 14 miliardi di franchi francesi dei tempi, a spanne, oltre due miliardi di euro attuali! Presentato nel 2000, il V6 trova posto anche nel vano della monovolume tre porte Avantime – altra ordinaria follia dell’epoca – e con la sigla ESL nella super Clio. Nella versione Solution F da 226 CV, è il più potente in circolazione rispetto alle altre versioni adottate da Peugeot e Citroën.

L’urlo di Much. Poche storie: dopo aver smontato il coperchio superiore e la paratia termoacustica sottostante, fa impressione vederlo lì dietro, lì dentro. Curiosamente, la Phase 2 presenta una sensibile difficoltà di accesso, poiché il portellone si apre di appena 90 gradi. Pazienza, è la sostanza che conta: il 6 cilindri della seconda serie è gonfiato fino a 255 CV, confermandosi uno dei migliori frazionati atmosferici del momento. “Su entrambe le Clio è ben isolato. Certo scalda un po’, senza essere però una croce come sulla R5 Turbo”, conferma Carlo Alberto Venosta, che le ha affiancate per Ruoteclassiche. “Il sound? Si rivela per come te lo aspetteresti. In basso è tranquillo, poi in accelerazione, dai cinque ai settemila giri, specie sulla Phase 2, sale quello che io chiamo l’urlo di Munch: un crescendo impressionante che libera un suono pieno, sconvolgente, che a me ricorda il famoso quadro”, racconta.

È poco conosciuta. Venosta ha 61 anni ed è abituato a guardare avanti. Commercia auto a Casalpusterlengo, in provincia di Lodi; comprò la Phase 1 quattro anni fa da un concessionario Renault padovano, che a sua volta l’aveva importata dalla Germania, intravedendone il potenziale collezionistico soprattutto per la generazione dei quarantenni. “Per quanto particolare e costruita in serie limitata, forse da noi la Clio V6 non è mai stata troppo sotto i riflettori. Molti non la conoscono neppure. Tutt’altro discorso per la Francia, dove trovarne una in vendita è davvero difficile: da bravi sciovinisti, se le tengono strette”.

La seconda fase. Per quanto conoscitore del mercato, Venosta era venuto a sapere dell’esistenza di una Phase 2 solo al momento dell’acquisto della prima serie in livrea grigia metallizzata, codice colore 488. Poteva accontentarsi? No di certo: fatto trenta, occorreva fare trentuno dando asilo, pardon garage, anche alla sorella più giovane. La ricerca della seconda è stata molto più difficile, perché costruita in circa duecento esemplari di meno – 1309 contro 1513 – e maggiormente apprezzata dagli appassionati e dai collezionisti. “In un’inserzione francese hanno cercato persino di spacciare una Phase 1 per una 2, ma basta guardare i quadranti della strumentazione, che nella seconda serie sono neri, per non sbagliarsi”. Alla fine, una delle 118 Clio V6 uscite nella livrea cangiante Noir Doré è stata localizzata nuovamente in Germania, dalle parti di Essen dov’era giunta dalla Spagna qualche anno prima.

Anche confortevole. “Fino a casa è stata una tirata ininterrotta di 1300 km in ogni possibile condizione climatica. Sole, poi pioggia, neve e ghiaccio. Ma sapete cosa? Me la sono goduta fino in fondo”, sorride Venosta. C’è da credergli, anche perché, a differenza delle 134 unità in versione Trophy allestite a Dieppe dalla Renault Sport, la Clio V6 è confortevole. L’interno è così rifinito e tutto sommato ordinario, da finire per tradirne l’indole sportiva. È un’automobile cult, d’accordo, ma forse anche per questo non diffonde il fascino brutale e pericoloso di una R5 Turbo. Per quanto la vista delle prese d’aria, esagerate, arpioni lo sguardo e la voglia. La carreggiata allargata, 110 mm all’avantreno e 138 mm dietro, porta in dotazione gli indispensabili passaruota maggiorati, mentre la scolpitura delle portiere riprende la linea sia delle prese laterali, sia dei brancardi molto accentuati. Eppure la V6 non è soltanto una Clio con dei fianchi supersviluppati. Presentata sotto forma di prototipo nel 1998, la Phase 1 inizia a essere prodotta nel 2000 e prosegue fino al 2003 a Uddevalla, in Svezia, nello stabilimento della Twr – sigla di Tom Walkinshaw Racing – che ha collaborato allo sviluppo del propulsore.

La prima è più brutale. Rispetto alla Clio di serie, la piattaforma è stravolta con il 6 cilindri montato nell’abitacolo, in un alloggiamento rinforzato che prende il posto del divanetto. Hot hatch? Statene certi. L’assetto posteriore si basa sullo schema a bracci multipli, pareggiato dal McPherson anteriore ottimizzato con una barra antirollio maggiorata, mentre il passo aumenta da 2472 a 2510 mm. Anche i cerchi in lega OZ hanno il segno più: sulla Phase 1 sono da 17” con gomme differenziate, 205/50 davanti e 235/45 dietro; mentre nella serie successiva salgono a 18”. Sgranate le sei marce del cambio dedicato, la differenza tra le due è sensibile. La seconda versione del V6 sviluppato alla Renault Sport (ex Alpine) di Dieppe ha 25 CV. Pur essendo meno potente, però, la cattiveria si sente di più nella Phase 1, in cui l’erogazione è più brusca e la tenuta di strada richiede sangue freddo. Più amichevole la Phase 2, pacata ai bassi, per poi allungare con prepotenza e in tutta scioltezza, senza sorprese in percorrenza di curva. Borghese? Sì, ma meglio non sottovalutarla.

“È bestiale, l’accelerazione sembra non finire mai”, conferma Carlo Alberto Venosta dopo lo scambio di volanti della giornata. E questa è la ragione per cui la Clio V6 resta una delle Renault più inseguite dagli appassionati della Losanga, rarità a parte. I suoi vent’anni li porta tutto sommato bene: è destinata a diventare un classico, con un presente collezionistico già interessante. Prima di lasciare la cittadina del Lodigiano del servizio, a qualche metro dal cancello di una scuola media incrociamo una moderna Ford Mustang V8 da 450 CV, nel suo vistoso “triple yellow”. Inevitabilmente partono le sgasate da fermi, nel giro di pochi secondi i ragazzini estraggono i cellulari e lasciano partire una raffica di scatti. Indovinate in quale direzione? Potreste rimanere sorpresi…

 

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