È l’Alfa 6, nel 1979, la prima Alfa Romeo spinta dal leggendario sei cilindri a V di 60° progettato da Giuseppe Busso. Festeggiamo insieme i 40 anni del “violino di Arese” attraverso una carrellata dei modelli che l’hanno montato fino al 2006.
Per gli appassionati il 6 cilindri a V progettato da Giuseppe Busso è il “violino di Arese”, il pezzo forte di un’orchestra che chiude una sorta di triangolo immaginario con altri due capolavori di meccanica entrati nel cuore degli alfisti: il quattro cilindri bialbero (opera, a cavallo degli anni 40 e 50, dei tecnici della scuola di Orazio Satta Puliga, tra i quali spicca proprio il nome di Busso) e il boxer, sempre quattro cilindri, messo a punto alla fine degli anni 60 dal team capitanato da Rudolph Hruska e Domenico Chirico.
Marchi di fabbrica. Se il bialbero, per tradizione, ha sempre equipaggiato le berline e le sportive di fascia medio-alta (è stato montato, dagli anni 50 agli anni 90, sulle berline, coupé e spider dei modelli 1900, Giulietta, Giulia, Alfetta e derivate), al boxer è spettato, a cavallo degli anni 60 e 70, dare lo sprint all’avventura industriale nel mezzogiorno della compatta Alfasud (una storia affascinante almeno quanto quella delle Alfa “nord”, ricca di successi e contraddizioni e proseguita negli anni 80 e 90 coi capitoli Arna, 33, 145 e 146).
Due litri non bastano più. Ancora diversi gli obiettivi per il nuovo motore che Giuseppe Busso, progettista torinese classe 1913, mette a punto per l’Alfa 6, l’ammiraglia che secondo i piani della dirigenza Alfa Romeo avrebbe dovuto colmare un vuoto nella produzione e affermarsi come alternativa alle lussuose e potenti berline tedesche degli anni 80. Viste le dimensioni della nuova vettura, servono maggiori potenze. Quando è chiaro che sarà necessario superare i due litri di cilindrata, la scelta cade su un inedito 6 cilindri a V di 60°.
Un’opera d’arte. Ma com’è fatto questo nuovo cuore Alfa? Il monoblocco e le teste sono in lega leggera, la cilindrata è di 2492 cm³ e la distribuzione a due valvole per cilindro. Quelle di aspirazione sono comandate direttamente dagli alberi a camme in testa (due, uno per bancata, azionati da una cinghia dentata), mentre quelle di scarico, più piccole, sono gestite da un sistema di aste e bilancieri azionato dallo stesso albero a camme. L’alimentazione singola, garantita da sei carburatori monocorpo verticali, consente di raggiungere una potenza massima di 158 CV, quanto basta per spingere la grande e grossa Alfa 6 oltre la soglia dei 190 km/h.
Sotto l’abito da sera c’è il V6 dei campioni. L’Alfa 6 – anche per via del suo design, datato e poco in linea con la tradizione sportiva del marchio – non riuscirà mai a conquistarsi la fetta di mercato inizialmente sperata, ma il suo motore – superate le iniziali, fisiologiche difficoltà di messa a punto – si rivelerà un punto fermo, una base preziosa in grado di dare lustro per lunghissimi anni a tanti modelli del Biscione. L’anno dopo a ospitare sotto al cofano il V6 Busso è la coupé GTV che, più leggera e aerodinamica della “sorellona” a quattro porte, tocca i 204 km/h. L’immagine di sportiva di razza viene esaltata dai successi nelle corse: su pista vince quattro Campionati Europei Turismo (1982, 1983, 1984, 1985), due Campionati Francesi per vetture di produzione (1983 e 1984), mentre nei rally trionferà nel Campionato Italiano Gruppo N (1982) e Gruppo A (1983 e 1984).
Sogno infranto sul nascere. Restando in tema di corse, il V6 Busso avrebbe potuto scrivere una pagina importante dei rally anche con la Sprint 6C, che l’Autodelta sviluppa sulla base della Sprint MY 1983 secondo i regolamenti estremi del nuovo Gruppo B. In un periodo di incertezze per l’azienda, però, il progetto rimane lettera morta, così come tramonta definitivamente l’idea di un impegno della Casa nelle corse su strada.
Tutto sotto controllo. Sarà un sei cilindri anche il motore dell’Alfa 90, un altro modello controverso nella storia del Biscione: nel 1985 sulla nuova berlina disegnata dalla carrozzeria Bertone, per dribblare la tassazione italiana sulle grosse cilindrate, il propulsore adottato è di “soli” 1996 cm³. Raffinato (e sofisticato) il sistema di iniezione elettronica CEM (Controllo Elettronico Motore), da anni al centro di un tavolo di lavoro con la Spica di Livorno, all’epoca società del Gruppo Alfa Romeo. Cuore di questo sistema, che debutta sull’Alfetta nel 1983, è una centralina elettronica che, leggendo le variabili ottenute da una serie di sensori sul motore, è in grado di gestire sia l’alimentazione sia l’accensione. L’unità, fluida e silenziosa nel funzionamento, garantisce ancora una volta prestazioni di primissimo piano: 192 km/h di velocità massima e 30,4 secondi per percorrere il chilometro da fermo.
Ciliegina sulla torta. Nello stesso anno a fregiarsi del Busso è la 75, il modello che celebra il 75° anniversario dell’Alfa Romeo. L’ultima grande berlina a trazione posteriore della Casa (prima dell’avvento dell’attuale Giulia) monta nella versione Quadrifoglio Verde il 2.5 V6 a iniezione: disponibile anche col catalizzatore, sviluppa una potenza massima di 156 CV per una velocità massima di 205 km/h. Due anni più tardi, sulla 75 debutta la versione maggiorata del V6, che con un alesaggio di 93 mm e una corsa di 72,6 mm raggiunge una cilindrata di 2959 cm³. La potenza è di 185 CV, la velocità di 220 km/h.
Avanti tutta! Un fatto naturale, quasi dovuto che nel 1987, sulla 164 – prima ammiraglia a trazione anteriore della Casa – dovesse approdare il sei cilindri di Giuseppe Busso. Proprio al brillante progettista torinese, infatti, vanno ricondotti i primi studi su questo schema, messo a punto in forma sperimentale addirittura negli anni 40, quarant’anni prima del passaggio dell’Alfa Romeo alla Fiat. Tocca prima al 3.0 (1987), poi a un 2 litri turbo (1991).
Il concerto continua. La vendita alla Fiat segna l’inizio di un nuovo corso per la Casa del Biscione ma i modelli futuri, pur abbandonando tutti – per ragioni di costi – la trazione posteriore, sapranno comunque ritagliarsi uno spazio da protagonisti nel panorama delle auto sportive. E in questo contesto di profondi cambiamenti e rinnovamenti, il V6 Busso ha ancora molto da dire. Si vedrà ancora sulle nuove GTV e Spider (1995, rispettivamente in versione 2.0 Turbo e 3.0 aspirato), sulla 156 (nel 1997 debutta il 2.5 V6, mentre nel 2002 la 3.2 GTA), sulla 166 (2.5 V6 e 2.0 V6 Turbo), sulla 147 (stesso 3.2 della 156, 250 CV), sulla GT (3.2 da 240 CV) e, last but not least, sull’ultima versione della 166 (in versione 3.2). È il 2004 e, venticinque anni dopo, il V6 Busso resta il meraviglioso “violino” del debutto. A mandarlo in pensione, con buona pace degli alfisti più puri, saranno le sempre più stringenti normative antinquinamento, quasi impossibili da rispettare, alla metà degli anni 2000, per un motore sportivo concepito negli anni 70.
Un fuoriclasse della tecnica. Giuseppe Busso è stato, a cavallo degli anni 40 e 70, forse il principale artefice della meccanica dei modelli più importanti della Casa di Arese: dalla 1900 alla Giulia, dalla Giulietta all’Alfetta, per arrivare al celebre sei cilindri che porta il suo nome. Dal suo tecnigrafo, al Portello prima e ad Arese poi, sono usciti anche altri capolavori, tra cui il V8 della 33 da competizione. Andato in pensione nel 1977, Busso è rimasto sempre molto legato all’Alfa Romeo. Ci ha lasciati all’inizio del 2006. Ironia della sorte, pochi giorni prima era stato prodotto l’ultimo V6 che porta il suo nome.