In questo terzo appuntamento con “Automobili nella tempesta” vi raccontiamo della Lincoln Continental protagonista dell’attentato al presidente americano John Fitzgerald Kennedy.
Non poche tempeste sono scoppiate intorno a un’automobile, o una carrozza. Quella della settimana scorsa aveva come sfondo Sarajevo e come protagonista la Graf & Stift dell’arciduca Francesco Ferdinando. Qualche anno prima, il regicidio italiano si era consumato a cavallo: l’anarchico Bresci contro Umberto I, sul viale della Villa Reale a Monza. In tempi più vicini, nell’agosto 1962, fu il generale De Gaulle a schivare di un soffio la buriana, anche grazie alle sospensioni della sua Citroen DS che funzionavano meglio dei mitra dei terroristi. Sullo stesso litorale, un po’ più a oriente, non si contano le tempeste innescate dalle bombe sulle auto dei leader delle avverse fazioni. E anche in Italia, per questa specialità, avremmo qualcosa da raccontare. Ma c’è una automobile che è entrata dritta nella storia, più di tutte le altre è l’icona dell’assassinio a quattro ruote. E’ stata fotografata, cinematografata, riprodotta, persino fotocopiata e messa in cornice, ai tempi della Pop Art. E’ la limousine del presidente Kennedy a Dallas.
Fine di un’epoca. Nel gennaio del 1961 il vento era cambiato a Washington. Un ciclone di modernità aveva fatto invecchiare l’intera classe politica. Nessuno sapeva più come vestire, come muoversi, cosa promettere e far sognare, se non guardando al giovane presidente. E anche l’auto di Truman e Eisenhower era diventata impresentabile. L’ex numero uno della Ford Robert McNamara, che Kennedy aveva convinto a lasciare il suo posto offrendogli il Dipartimento della Difesa e un decimo dello stipendio, aveva una sorpresa in tasca per lui: la nuova Lincoln Continental. Quest’auto dal disegno essenziale e personalissimo, che salvò il marchio Lincoln dalla chiusura, ma contribuì, a modo suo, a uccidere il presidente a Dallas, è stata un’idea di McNamara. Uomo di grande intelligenza, dal 1968 al 1981 illuminato presidente della World Bank, McNamara era stato un mago della statistica militare e civile, poi capitano di industria e quindi responsabile della guerra in Vietnam con Kennedy e Johnson. Ma torniamo alla Lincoln del 1961, protagonista della tempesta di questa settimana. Il disegno è di Elwood Engel, futuro chief-designer della Chrysler, e racchiude in due piani – verticali e sottili – il prisma rettangolare del corpo vettura. Una forma ad “H”, pura, abbastanza inedita, che rende obsolete non solo le vecchie Lincoln, tutte curve e cromature, ma anche le Cadillac della stessa epoca, con le loro lunghe pinne.
A cielo aperto. Nella sua semplicità mastodontica, la Lincoln era la macchina ideale per Kennedy, che ne fece ordinare due, entrambe in “midnight blue” e non nere, come erano state le vetture dei suoi predecessori. La prima quasi di serie, adibita alle situazioni semi-ufficiali e alle piccole spese della moglie. La seconda, battezzata dal Servizio segreto SS 100-X, era una vera carrozza da parata, col passo allungato di centoventi centimetri e piena di gadget ed effetti speciali. Il primo “effetto” era la visibilità del Presidente, una chiave della strategia elettorale di Kennedy. L’auto doveva mettere in evidenza i suoi occupanti. E se la coppia regale aveva ospiti a bordo (che sedevano su bassi strapuntini), era possibile sollevare il divano posteriore di trenta centimetri, con un martinetto idraulico. In caso di intemperie erano disponibili due tipi di capote, una in plexiglass trasparente detta “bubbletop” e una di tela nera, a segmenti componibili. Ma JFK le utilizzò solo in casi estremi, preferendo sempre la vettura scoperta. Nessuna blindatura era prevista, nessun cristallo era antiproiettile, nessun agente di scorta prendeva, di solito, posto sulle fiancate. Il presidente e la folla: questo voleva la gente, questo aveva funzionato bene nelle primarie del ’60, avrebbe continuato a farlo per le elezioni del ’64.
Una storia irrisolta. L’unica protezione della SS 100-X erano l’autista e l’agente al suo fianco, entrambi del Servizio segreto, entrambi armati, entrambi pronti a tutto, compreso scavalcare la paratia e mettere il loro fragile corpo tra i proiettili e il Presidente. Se mai fosse stato necessario. Ma questo a Dallas non avvenne. L’agente speciale Kellerman ci mise troppo a capire cosa stava succedendo, e quando, dopo il secondo sparo, diede l’ordine di fuggire, l’autista Greer indugiò ancora sui freni (nei filmati si vedono gli stop accesi, l’auto quasi ferma), poi si girò a guardare e solo infine premette l’acceleratore. Anche la vettura della scorta, che seguiva a pochi metri e i quattro motociclisti assistettero immobili: un uomo solo ebbe la prontezza di correre e arrampicarsi sul cofano. Era l’agente Clint Hill, che ha recentemente pubblicato un bel libro (Five days in November, Gallery Books), per cercare di liberarsi dal senso di colpa che lo ha inseguito per tutta la vita. Perché anche la sua corsa cominciò troppo tardi, quando gli eventi erano ormai irrecuperabili.
La scena del crimine. In mezzo a tutto questo c’era la grande Lincoln, a passo d’uomo, con le bandiere sui parafanghi che sventolano al rallentatore, mentre nel recinto dell’abitacolo si compiva la mattanza. A poco servirono le sirene, i fari variopinti, le radio multibanda e i telefoni (all’epoca un accessorio non banale). Mentre si correva a centoventi verso l’ospedale Parkland e Jaqueline non gridava “Ti amo, Jack” – come risulta nel rapporto Warren – ma un più credibile “Ho il suo cervello tra le mani!”, il fato era compiuto e nessuna chiamata avrebbe potuto portare soccorso. I fatti che seguirono sono entrati nel milione di pagine di documenti, inchieste, saggistica di buona e pessima fattura dedicate al dramma di Dallas. La limousine, divenuta crime scene, non fu sequestrata. Ci si affrettò, appena tornati al garage della Casa Bianca, a lavare tutto per bene. Ufficialmente perché l’odore di morte era insostenibile, nei fatti, chissà. Il parabrezza, che presentava una scheggiatura – secondo l’inchiesta solo all’interno, per altri un foro passante – fu rimosso. Forse trafugato. Due mesi dopo l’auto era a Detroit dove fu completamente smontata. Tornò con una capote fissa e vetri anti-proiettile, nuovi interni e un conto da mezzo milione di dollari. Ma come corpo del reato, non valeva più nulla. Qualche anno dopo nuove modifiche, il tetto in tripla lamiera, altre corazze, giocattoli elettronici alla 007. L’ultimo ad usarla fu il presidente Carter.
Fascino eterno. Oggi la Lincoln Continental è il pezzo forte della collezione del museo Henry Ford di Deaborn. Si fa la fila per avvicinarsi, i bambini guardano, senza capire perché i nonni hanno gli occhi lucidi. A prima vista sembra un’altra, con tutte quelle modifiche, e anche il colore è tornato nero, come tutte le “beast” presidenziali. Ma attraverso i cristalli spessi quanto quelli di una banca, sui cuscini di pelle scura, sembra che brilli un riflesso di luce. Si muove qualcosa? Guardate bene: par di vedere Pennsylvania Avenue, la Porta di Brandeburgo, Paolo VI appena eletto in Vaticano, e un porto di pescatori Irlandesi, dove Kennedy volle andare poco prima di morire, a rivedere i propri avi. Non c’è alcun dubbio, SS 100-X sarà sempre l’auto della Nuova Frontiera.