Pensata prima della guerra per chi non poteva permettersi un’altra automobile, la piccola 2 CV doveva costare poco. Ed essere estremamente leggera, vista la potenza massima di appena 9 cavalli: pochi anche per l’epoca.
Sarebbe il sogno di ogni appassionato del “double chevron” salire su una macchina del tempo e tornare indietro a settant’anni fa, quando la 2 CV debuttò in anteprima mondiale al Salone di Parigi.
Non piacque a La Stampa. Era il 6 ottobre del 1948 e un corrispondente italiano de La Stampa, nel suo reportage sulle auto italiane esposte alla kermesse, trovò un trafiletto anche per descrivere la neonata vetturetta parigina. “Non è bella – si legge –, anzi è brutta . È grigia, del colore che avevano le automobili militari tedesche, è ricoperta quasi completamente di tela e quando è scoperta la carrozzeria pare uno scheletro di macchina incendiata”.
L’ingegnere della trazione anteriore. Sarà, ma se settant’anni dopo siamo qui a parlarne, evidentemente lo stile e le soluzioni proposte dalla vettura erano più che rivoluzionarie. A coordinare il progetto è André Lefebvre, bravo ingegnere fortemente voluto a Quai de Javel da André Citroën e salito alla ribalta alla metà degli anni 30 per aver progettato la Traction Avant, prima auto a trazione anteriore della Casa.
Occhio al portafoglio e… cura dimagrante. Rispetto alla Traction, per la quale non si badò a spese – tanto che gli sforzi per produrla portarono l’azienda sull’orlo del baratro –, il progetto della TPV (la “Toute Petite Voiture”, che sarà poi la 2 CV) doveva costare poco. Altro vincolo, questa volta di natura tecnica, fu imposto dal peso: bisognava togliere tutto ciò che non fosse strettamente necessario alla circolazione su strada. Sparirono così dal prototipo iniziale il sistema di avviamento elettrico, sostituito da una manovella e poi da un cavetto a strappo, e addirittura uno dei due fari anteriori perché, spiegarono i progettisti, “ne bastava uno”. Per superare la prova della bilancia, si lavorò anche sul telaio e sulla carrozzeria: all’acciaio si sostituirono il magnesio e l’alluminio, materiali più leggeri ed economici. I “sedili” erano due amache sospese a traverse orizzontali e per segnalare una svolta, vista la rinuncia agli indicatori di direzione, si doveva tendere il braccio fuori dal finestrino.
Abolite le soluzioni troppo eccentriche. Tutto questo oggi può far sorridere, ma bisogna considerare che la squadra di Lefebvre sviluppò un mezzo espressamente destinato all’utilizzo in campagna. Ecco spiegata l’assenza dei cristalli laterali, rimpiazzati da fogli di mica, proprio come quelli degli aeroplani. Lo scoppio della guerra mise in stallo lo sviluppo e, uno dopo l’altro, i prototipi andarono quasi tutti distrutti. Alla fine del conflitto, in un’Europa devastata dagli orrori delle ostilità, dirigenti e progettisti si resero conto che buona parte delle soluzioni del progetto preliminare non erano più adeguate. Il prezzo dell’alluminio nel vecchio continente nel frattempo si era impennato vertiginosamente – quindi vi ci si rinunciò. I fari tornarono due, e i finestrini furono nuovamente di vetro. Vennero ripristinati anche l’avviamento elettrico e l’armatura dei sedili in tubolare d’acciaio.
Ritorno al passato: le soluzioni iniziali che furono riproposte. La “Deuche”, come viene affetuosamente chiamata la 2CV in Francia, in realtà conserva parecchi accorgimenti visti sulla TPV. Su tutti, la struttura dei finestrini anteriori, divisi orizzontalmente a metà: si aprono spingendo verso l’esterno la metà inferiore, che si aggancia sulla cornice superiore della portiera. Questa inusuale configurazione consentiva di sporgere tempestivamente il braccio fuori e indicare il senso della svolta – gli indicatori di direzione arriveranno soltanto negli anni 60. E i sedili? Seppur formati da una struttura tubolare d’acciaio, non vennero imbottiti: aveva resistito il concetto dell’amaca, con la tela della seduta e dello schienale ancorata al telaio con degli elastici in gomma. Altro elemento immutato fu la capote in tela, che andava dal parabrezza al paraurti.
Con le buone… si ottiene tutto. Flaminio Bertoni, l’estroso stilista italiano papà delle vetture più iconiche del “double chevron” (oltre alla 2 CV, ha disegnato la Traction Avant, la DS e la Ami 6), aveva apportato le ultime correzioni ai disegni della capote e della scocca soltanto una manciata di giorni prima della messa in produzione della vettura. Era troppo tardi: gli stampi per l’imbutitura della lamiera, costosissimi, erano già pronti. Il risultato fu che sulla prima 2 CV di serie la capote non si incastrava come previsto con la carrozzeria. Fermata la catena di montaggio, gli uomini del reparto “metodi di produzione” si accorsero dell’errore e convocarono Bertoni in stabilimento. “L’Italiano” – così Bertoni veniva chiamato in Citroën – fu prontamente invitato a esaminare il problema: pensando che le parti potessero ugualmente combaciare tra loro, viste le tolleranze generose con cui erano stati progettati entrambi i componenti, provò e riprovò. Dopo una lunga serie di tentativi andati a vuoto, in preda a uno scatto d’ira (in Citroën la sua irascibilità era cosa arcinota), sferrò una sonora pedata alla carrozzeria. E lì avvenne il miracolo: con la vibrazione, la capote scattò improvvisamente nella giusta posizione, chiudendosi come meglio non avrebbe potuto. I disegni furono prontamente modificati ma, nell’attesa che fossero pronti i nuovi stampi, ogni operaio del reparto fu dotato di uno speciale stivale in gomma e cuoio…