Il mondo assiste incredulo alla tempesta che spazza Washington in queste ore di vigilia, e che ha trasformato la festa dell’inaugurazione in un assedio. Ma la vita di Joe Biden, il più anziano presidente eletto nella storia degli Stati Uniti ha attraversato altre buriane. Nel 2015, durante la vicepresidenza a fianco di Obama, perse il figlio primogenito Beau, di soli 46 anni. Nel 1972, in un incidente stradale, morirono la prima moglie, trentenne e una figlioletta di 18 mesi.
Come quasi tutte le famiglie numerose nell’America anni ’70 i Biden avevano una station wagon. Molto prima dell’era dei Suv, quando i pickup li guidavano agricoltori e carpentieri, la giardinetta agli steroidi era lo status-symbol della media borghesia. L’auto della moglie per bene, con la sua dose extra di cromature e i pannelli finto legno sulle fiancate. Le chiamavano “Country Squire” o “Estate” e anche chi non aveva la seconda casa in campagna e la tessera del golf non vedeva l’ora di possederne una. E intanto si allenava al volante di quegli inguidabili transatlantici.
I Biden non facevano eccezione: il giovane parlamentare, eletto proprio all’inizio di novembre, ne aveva acquistata una per la famiglia, mentre lui si godeva la Corvette Sting Ray del ’67 , dono del padre per il matrimonio. Per le occasioni ufficiali una “limo” con autista e altre berline a noleggio completavano il garage del promettente senatore.
Nuova di pacca. La scelta per l’auto di Nealia Biden era caduta su una Chevrolet Kingswood. Un modello di grande serie, erede – nel nome – della prima Kingswood prodotta tra il ’59 e il ’60 e ispiratrice, con le sue pinne posteriori appiattite, di un’intera generazione di vetture GM.
La nuova Kingswood era molto meno osé della sua antenata. Forme morbide, muso monumentale e verticale, cintura possente, si permetteva tuttavia il lusso di vetri posteriori avvolgenti, che piegavano di quasi novanta gradi verso il lunotto. Il portellone aveva a sua volta un ampio finestrino, motorizzato, che scendeva nella parete metallica. Dentro, tre file di poltrone potevano ospitare fino a nove passeggeri, ma l’ultima panchetta era spesso chiusa e il vano di carico in grado di soddisfare qualsiasi ingombro.
Agilità, questa sconosciuta. Con un passo di tre metri, duemiladuecento chili a vuoto e un cambio – manuale o automatico – ma sempre a tre rapporti, non c’era molto da divertirsi e le famose “Country” davano il peggio proprio sulle strade fangose di campagna, in collina, per non parlare delle performance sulla neve. I motori erano comunque impressionanti, almeno per noi europei: il 5.7 litri V8 di base forniva, in teoria, 260 cavalli. Ma chi non si accontentava poteva contare su un 6.6 litri e perfino un 7.400 di cilindrata. Per farci che cosa non è dato sapere.
La velocità massima dichiarata era di 170 km/h, ma non ci voleva la voce timorata del concessionario per spiegare ai clienti che era saggio non avvicinarsi nemmeno lontanamente a quel limite. Balestre posteriori e freni misti disco- tamburo la dicevano lunga sulla tenuta in emergenza.
Quel maledetto incrocio. Detto questo, e perfettamente convinta di guidare al top della sicurezza (perché queste erano le auto di Detroit negli anni ’70) la bionda signora Biden salì, quel fatidico 18 dicembre ’72, sulla sua Kingswood giallo paglierino. Portava i due bambini più grandi a giocare a casa di amici, e si era presa con sé anche la piccola Amy di neppure due anni.
Scendevano lungo una strada tranquilla, uguale a tutte le altre, che lasciato il sobborgo di Hockessin compie ampie curve tra ville e giardini, prima di innestarsi sulla statale 7 del Delaware. Alle due e trenta, Nealia Biden arrivò in vista dell’incrocio, una T quasi perfetta con la via maggiore, preannunciata da più cartelli e un visibilissimo stop. Nessuno sa cosa accadde. Nel Paese dove se non ti fermi a un incrocio – già allora – ti sequestravano la patente, mrs. Biden tirò incredibilmente dritto. Forse i bambini la distrassero, forse la macchina ebbe un problema, forse i suoi occhi videro, ma il cervello no.
La forza di Joe. La Kingswood finì, per quasi tutta la lunghezza, nella carreggiata della statale, proprio mentre un camion a rimorchio sopraggiungeva lanciato. L’impatto fu spaventoso, a centro vettura, lato conducente. L’auto fu trascinata per una cinquantina di metri, poi cadde dalla massicciata travolgendo tre alberi. Nealia Biden morì sul colpo, così come la piccola Amy. I due maschi se la cavarono miracolosamente, con parecchie ossa rotte e un trauma cranico.
Joe Biden era a Washington, negli uffici del Senato, quando apprese la notizia. Con la sorella e i due fratelli più giovani, tutti impegnati nella campagna elettorale appena conclusa, si precipitò in aeroporto e alle 18 giunse in ospedale.
Rimase mezz’ora con la moglie e la bambina, composte su due barelle. Poi visitò i figli Hunter e Beau, di tre e quattro anni: poco dopo era sull’ambulanza che portava il più grande in un centro pediatrico specializzato, perché le fratture alle gambe necessitavano delle cure di un ospedale migliore. “Non piangere – disse al bambino che non voleva separarsi da lui – salto su anch’io. Ovunque ti portino ci sarà anche il tuo papà”.