Le cabriolet non mi interessano”, così esordisce sorridendo Raffaele, imprenditore classe 1968 della provincia di Venezia, proprietario della Ferrari 550 Barchetta Pininfarina protagonista di queste pagine, la 54ª allestita. Penso di aver capito male, ma Raffaele continua: “Inverno, chiuse, ha poco senso usarle; in estate appena ci si ferma hai il sole che picchia inesorabilmente in testa. Insomma, non fanno per me”. Tutti argomenti comprensibili, ma allora perché acquistare addirittura una barchetta, l’interpretazione più pura, radicale del concetto di automobile scoperta? “Non nascondo il ruolo giocato dall’esclusività di questo modello, prodotto solo nel 2001 in appena 448 esemplari, ma soprattutto, da appassionato di Ferrari, non potevo rimanere insensibile a questa vettura che è un omaggio alle prime automobili di Maranello, quelle che dalla fine degli anni Quaranta a tutti gli anni Cinquanta costruirono il mito delle Rosse”. In effetti il nome Barchetta richiama subito alla memoria la “125 S” del 1947, la “166 MM” Touring del 1948 (la prima ad essere definita barchetta grazie ad una geniale intuizione di Giovanni Canestrini), la 375 MM Pinin Farina del 1953, la 500 Mondial, la 750 Monza, la 250 Monza per non parlare della Testa Rossa (500 e 250). Il richiamo al passato non si riduce però ad una “furba” scelta linguistica, ma è ben più profondo. Presentata al Salone di Parigi del 2000, la 550 Barchetta Pininfarina doveva essere testimone d’eccezione del ricco patrimonio di stile e tecnica della Casa.
Una carica evocativa. La sua essenza si ritrova nelle poche righe firmate dal presidente della Ferrari Luca Montezemolo e riportate nella brochure della vettura: “Ho chiesto a Sergio Pininfarina, per il settantesimo anno della sua Azienda, di riproporre alla Ferrari una 12 cilindri aperta, a motore anteriore, dal sapore antico, quello che viene dal ricordo delle grandi corse su strada e dalla presenza di vetture che si chiamano 166 MM, 250 California o 365 GTS4 Daytona”. Un tributo quindi sia alla Ferrari sia alla fattiva collaborazione con lo stilista torinese, avviata nel 1952 e mai interrotta, un binomio inscindibile dal quale sono nati autentici capolavori e che la Ferrari intendeva celebrare battezzando il nuovo modello con il nome del carrozziere: non era mai avvenuto prima, con nessuno (accadrà ancora con la 612 Scaglietti nel 2004). A dodici anni da quel debutto parigino la 550 Barchetta Pininfarina mantiene intatta la sua carica evocativa. Nelle sue linee è evidente la strettissima parentela con la 550 Maranello, la berlinetta lanciata nell’estate del 1996 che aveva finalmente segnato il ritorno nella gamma della Casa di una coupé granturismo con motore anteriore, la prima dopo l’indimenticabile 365 GTB/4 Daytona. Forse alla Pininfarina avrebbero potuto osare di più, una considerazione alimentata dal ricordo del clamore e degli unanimi consensi che la stessa carrozzeria aveva ottenuto al Salone di Torino del 2000 con la concept car Rossa, straordinaria interpretazione del tema roadster sempre su base 550 Maranello.
Scelta convenzionale. In effetti al confronto con quella entusiasmante proposta di stile, la Barchetta si rivela, se non banale, molto più convenzionale. La scelta di non proseguire lo sviluppo della Rossa, ma di limitarsi ad intervenire sulla Maranello fu presa per ragioni di tempi e di costi, come sottolineato dall’ingegnere Lorenzo Ramaciotti, allora direttore generale della Pininfarina Studi e Ricerche. L’eliminazione del padiglione ha richiesto alcuni affinamenti volti soprattutto a conferire una maggiore importanza visiva al cofano bagagli, che privato dei montanti posteriori del tetto appariva troppo liscio. Il brillante escamotage trovato dai designer è stata l’aggiunta di due carenature aerodinamiche poste dietro ai sedili: esse al contempo costituiscono un chiaro richiamo alle barchette del passato e integrano meglio nella linea della vettura i due massicci rollbar rivestiti in pelle. Anche il parabrezza è stato oggetto di un attento studio, finalizzato a minimizzarne il più possibile la presenza. Al centro stile hanno quindi ridotto l’altezza di dieci centimetri, nascosto la cornice dietro al cristallo e aggiunto due corti montanti verniciati in tinta con la carrozzeria dai quali il parabrezza fuori esce a filo, una soluzione già sperimentata con il prototipo “Dardo” nel 1998 e che otticamente abbassa in modo ulteriore l’inclinazione della struttura.
Natura corsaiola. A evidenziare la natura corsaiola della Barchetta sono stati scelti infine cerchi scomponibili in lega Speedline da 18” a cinque razze. Dal punto di vista meccanico l’aggiornamento più significativo ha riguardato il telaio tubolare, sempre formato da elementi in acciaio di diversa sezione, ma adeguatamente irrigidito nella zona inferiore per compensare la mancanza del tetto. Modificata anche la taratura delle sospensioni (a controllo elettronico) per via della diversa ripartizione dei pesi rispetto alla coupé. Invariato tutto il resto, a partire dallo straordinario V12 di 5474 cm3 da 485 CV, con distribuzione a quattro alberi a camme in testa e quattro valvole per cilindro (due di aspirazione e due di scarico). Un gioiello in lega leggera (peso 235 kg) con canne in alluminio riportate in umido e rivestite in Nikasil, entro le quali scorrono pistoni con bielle in lega di titanio Ti6A14v. Il motore, montato in posizione più arretrata possibile, è accoppiato ad un cambio manuale a sei marce collocato posteriormente in blocco col differenziale autobloccante (schema transaxle).
Divertente da guidare. Pur essendo fondamentalmente una Maranello tagliata, la Barchetta si rivela ancora più divertente da guidare. Tutte le sensazioni vengono amplificate, quasi la mancanza del padiglione stabilisse un legame diretto senza più filtri con il poderoso V12. Lasciarsi prendere la mano è un attimo: l’elettronica fa sembrare tutto facile, gestibile. La Barchetta si dimostra sempre sincera, non tradisce e quando davvero esageri te lo comunica garbatamente, rispondendo docile alle correzioni. Quasi non sembra di essere al volante di una purosangue capace di raggiungere i 300 km/h, di scattare da 0 a 100 in 4,4 secondi e di percorrere il chilometro da fermo in 22,6 secondi. A riportarti con i piedi per terra ci pensa però il frastuono dell’aria. In realtà una capottina di fortuna da montare manualmente viene fornita (è ripiegata in una sacca riposta in un apposito vano nel bagagliaio), ma l’avvertenza stampigliata non lascia dubbi sulla sua utilità: “Da non utilizzare ad una velocità superiore a 120 km/h”. A Maranello il senso dell’umorismo non mancava.