Al Salone di Torino del 1968 debuttava la Fiat 850 City Taxi, un prototipo molto singolare rispetto alle tranquille abitudini del marchio più amato dagli italiani. Non arrivò mai in produzione, ma fu geniale.
A qualcuno potrà suonare strano, ma le vetture per il trasporto pubblico stuzzicano da sempre ingegneri e designer. Del resto, concepire un oggetto destinato a ospitare persone sempre nuove è più complicato che volgersi verso il classico cliente privato: ancora adesso resta famoso il concorso indetto dal 1976 dal MoMa di New York per immaginare un sostituto dei celeberrimi “yellow cab”, cui partecipò perfino Alfa Romeo (!) con un’idea firmata Giugiaro. Oggi l’iniziativa americana appare uno spaccato dei cambiamenti di quel decennio, a partire da un’inedita attenzione all’ecologia e alle persone a mobilità ridotta. In Italia, però, qualcosa si era mosso già molto prima…
Vera sessantottina. Correva infatti l’anno della contestazione quando l’auto democratica per eccellenza, quella 850 che nei sogni dell’italiano medio alimentava dal ’64 la bramosia di mobilità in precedenza appannaggio della 600, si svelò al Parco Valentino in una veste del tutto inedita. “City Taxi”, la chiamarono: abbastanza per comunicare che, in un Paese ormai economicamente maturo, le metropoli e il relativo traffico cominciavano a impossessarsi del centro del dibattito (il 1968 è anche l’anno della 500 L con suoi primi rostri “a prova di parcheggio”); abbastanza per lasciare esterrefatto chi si attendeva un prototipo del genere da un Carrozziere, e non da Mamma Fiat, di solito assai più prudente.
Doppiamente geniale. In realtà, dietro le forme spigolose e, soprattutto, i concetti innovativi che l’ultima nata dispiegava sotto gli occhi degli osservatori, si celava un lavoro di ricerca difficilmente ipotizzabile fuori dal colosso torinese. Tutto il contrario del puntare sullo stile e sull’edonismo. Non a caso il risultato finale fu coperto da 15 brevetti. Non a caso la proposta scaturiva dalla mente illuminata di Pio Manzù, lo stesso designer che l’anno successivo avrebbe elaborato la 127 (per poi morire prematuramente a poche ore dall’approvazione della maquette) e progettato con Achille Castiglioni una lampada rimasta nella storia dell’abitare italiano, la Parentesi di Flos. Non a caso, infine, la meccanica di base annoverava il cambio Idroconvert (cioè semiautomatico, senza frizione ma con la leva tradizionale) fortemente voluto da un altro genio dell’automobilismo di tutti i tempi, Dante Giacosa.
Prego, si accomodino. Sulla City Taxi a colpire era anzitutto l’architettura della carrozzeria. Una portiera tradizionale per il guidatore (senza ulteriori aperture sul lato sinistro), un’altra scorrevole al centro della fiancata destra: così i passeggeri potevano sistemarsi agilmente sulla panchetta posteriore, a tre posti, senza neppure scomodarsi a toccare la maniglia della porta perché lo scorrimento avveniva elettricamente, su comando del tassista stesso (una sciccheria che oggi manca ancora, per esempio, sul Fiat Qubo). Il tassametro, enorme, era collocato sulla plancia come una sveglia su un comodino, cioè con la massima evidenza, per permettere subito a chi sedeva dietro di seguire l’andamento della tariffa.
Versatilità e sicurezza. Se per i bagagli più piccoli e leggeri bastava la cappelliera sopra il vano motore (accessibile da un lunotto apribile), per i colli più importanti era possibile sfruttare lo spazio vuoto accanto all’autista, approfittando di apposite cinghie di fissaggio. Inoltre, il radiotelefono che consentiva di rispondere al centralino era dotato di microfono incorporato nell’aletta parasole, un primo tentativo di “viva voce”. Perfino l’architettura dei tergicristalli, con quello sinistro a pantografo, risultava innovativa e ottimizzata.
Eredità taglia S. Cosa rimase di un prototipo così avanzato? Non molto, purtroppo, forse anche in ragione della morte del suo creatore. Ma la coda merita un secondo sguardo: al netto delle proporzioni un po’ sbilanciate in favore dei cristalli, retaggio dell’impostazione super-funzionale dell’abitacolo, non può non ricordare qualcos’altro. Quelle forme geometriche, quella linea di cintura marcata che taglia a metà il cofano motore, quei fanali rettangolari incassati: tutto rimanda a un’altra piccola Fiat, celeberrima, nata quattro anni dopo. La 126.
Silvio Jr. Suppa