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Ford Pinto: una storia da manuale

La tempesta di questa settimana (trentesima puntata della nostra rubrica!) va attraversata per forza: colpì la più famosa utilitaria americana, trasformandola in un caso etico, mediatico e giudiziario. Ma la piccola Pinto, col senno di poi, non era più pericolosa delle sue concorrenti. Anzi.

L’automobile americana non muove grandi entusiasmi in Italia. Escludendo le Corvette più blasonate, la Jeep Willys della guerra e poche altre, la storia scritta dalle “Tre Grandi” di Detroit è – tutto sommato – poco conosciuta nel nostro Paese, sia tra i collezionisti di oggi che tra gli improbabili clienti di un tempo. E le eccezioni (pensiamo alla ben nota collezione Bulgari) sembrano quasi confermare la regola.
Eppure, dall’altra parte dell’oceano che per decenni ci ha separato negli eccessi, la tecnologia e le prestazioni, la storia dell’auto è molto interessante e merita di essere approfondita, almeno nelle sue pagine fondamentali. Se non altro perché ha anticipato la motorizzazione in Europa, ed è stata fonte di ispirazione produttiva, strategica e persino estetica.

Avventuriamoci quindi nella tempesta di questa settimana che ha attraversato gli States negli anni ’70 e si preannunciò esattamente mezzo secolo fa, quando la  Ford Pinto – una delle prime utilitarie statunitensi – arrivò nelle concessionarie.

In principio fu il Maggiolino. Tutti ricordiamo il successo epocale del Maggiolino americano, che nel decennio precedente era diventato un fenomeno. Soprattutto a New York e in California, ma non solo, aveva trovato degli estimatori tra le giovani generazioni, i progressisti, gli eccentrici e gli squattrinati.  “Con tremila dollari – diceva un celebre spot pubblicitario – il signor Smith ha comprato la sua nuova Dodge Sedan. Con tremila dollari il signor Green, vicino di casa, ha comprato la sua nuova Volkswagen. E in più un frigorifero, un forno a micro onde, una radio, una cyclette, un condizionatore d’aria…” e l’elenco continuava, mentre il signor Smith guardava perplesso i fattorini che consegnavano quel bendidio alla villetta di fronte.
Ma la Beetle, alla fine del 1968, non era più l’unica sub-compact che rosicchiava il mercato alla base. Dal lontano oriente erano arrivate le prime Corolla.

Una cattiva nomea. Con queste premesse non è difficile capire perché, sia pure in ritardo e un po’ controvoglia, anche a Detroit ci si convinse che bisognava mordere la nuova fetta di mercato.  La Ford e la GM partirono praticamente insieme, lanciando la Pinto e la Vega. La AMC, nel suo piccolo, era riuscita ad anticiparle, con una vetturetta di rara bruttezza, chiamata Gremlin. Sembrava che alla Gremlin mancasse tutto il posteriore, e infatti era stata sviluppata sul pianale della coupé Javelin, tagliato alla carlona di quasi un metro.
Ma fermiamoci, in questa puntata, alla storia della Ford Pinto, anche perché, oltre che nei testi sacri del marketing, finì anche in quelli dell’etica industriale e persino in tribunale. Per essere, col senno di poi, scagionata da molte colpe.

Corsa contro il tempo. Il briefing che Lee Iacocca, allora presidente della Ford, passò ai suoi tecnici poteva essere riassunto in due righe: prezzo meno di duemila dollari, peso meno di duemila libbre.  Nulla del genere, dai tempi della proletaria Ford T, era mai stato imposto a una fabbrica americana. E chi capisce di automobili sa che da sole, queste due variabili, condizionano non solo il prodotto – dalla solidità, alle prestazioni – ma anche le procedure e lo spirito con cui esso sarà costruito.
In verità il grande manager italo-americano aveva stilato anche un terzo diktat, che riduceva di oltre quasi alla metà gli abituali tempi di sviluppo previsti per un nuovo modello. La Pinto doveva essere lanciata alla fine del 1970: non rimanevano che il ’68 e il ’69 per andare in produzione.

Le criticità. I propulsori fortunatamente esistevano già (furono scelti il 1.6 della Escort e il 2.0 della Taunus progettati in Europa), ma il resto della vettura nasceva da zero. I vincoli di peso e costo, esasperati dalla inesperienza americana nella classe sub-compact, giocarono un ruolo sia nelle dotazioni di base (freni a tamburo, nessuna servo-assistenza, ponte posteriore rigido e balestre), sia in uno specifico aspetto della sicurezza che riguardava la posizione del serbatoio. Questo venne inserito tra il sottile paraurti posteriore e l’asse delle ruote, con pochi centimetri di tolleranza.
Già nei primi crash test fu evidenziato che in caso di tamponamento il serbatoio tendeva a schiacciarsi contro il differenziale, che in alcuni casi lo perforava provocando fuoriuscite di benzina.  Si valutarono vari rimedi, ma nessuno sembrò risolutivo, mentre tutti avrebbero ritardato il lancio della vettura, penalizzato l’abitabilità, elevato notevolmente i costi.

Fumantina. E qui si posero le condizioni per lo “scandalo” Pinto. Perché la Ford, fatti i suoi calcoli, decise che era tre volte più conveniente addossarsi qualche causa della clientela andata a fuoco, piuttosto che fermare tutto e riprogettare da zero. Si stimò inoltre che il numero di incendi mortali dovuti a tamponamento posteriore fosse molto basso.  E in effetti lo era. Ma le ricadute a lungo termine dell’immagine negativa della marca e del suo comportamento “non etico” pubblicizzato dai media, portarono in conclusione molti più danni.
La prima grana scoppiò nel ’72, quando la Pinto della signora Lily Gray si piantò su una freeway di Los Angeles e venne tamponata a circa 60 km/h dall’auto che la seguiva. Come qualcuno aveva previsto si sviluppò un incendio: la donna morì sul colpo, ma un ragazzo di tredici anni, che le sedeva accanto, riportò ustioni gravissime.  Ne nacque un caso mediatico e giudiziario che si trascinò sei anni, con una sentenza di primo grado che condannava la Ford a pagare 128 milioni di dollari per negligenze gravi e danni personali. Una cifra stratosferica e senza precedenti, che fu poi ridotta a 6,5 milioni in appello. Rimanendo pur sempre una sanzione esemplare.

La gogna mediatica. Il secondo incidente mortale accadde sei anni dopo e costò la vita a tre ragazze dell’Indiana, tamponate in questo caso da un furgone. Qui la battaglia legale fu  impari: la Ford, con uno squadrone di periti e difensori riuscì a spuntare indennizzi minimi, e a dimostrare che la Pinto non prendeva fuoco più che altre vetture della sua classe. In compenso, quasi obbligata dal Dipartimento dei Trasporti, richiamò un milione e mezzo di vetture (altra cifra record) per modificare finalmente il serbatoio incriminato.

Oltre ai due casi eclatanti, furono centodiciassette, in totale, le cause intentate dagli automobilisti contro il costruttore della Pinto. L’eco della stampa, come spesso accade, fu esasperato e implacabile: la CBS dedicò una puntata della ascoltatissima inchiesta “Sixty Minutes”, definendo la vettura una “trappola di fuoco”. Il settimanale “Mother Jones” fece di peggio, con un servizio speciale intitolato “La follia della Pinto”, in cui con numeri arbitrari e poi risultati di molto gonfiati, la vettura della Ford veniva fatta a pezzi.

Il sorpasso delle straniere. Come abbiamo già detto, le statistiche hanno poi dimostrato che la Pinto era altrettanto incline a prender fuoco delle sue concorrenti americane. Mentre era decisamente più sicura dei Maggiolini e delle prime Datsun e Subaru importate dal Giappone.  Ma le notizie trapelate sulle scelte ben poco etiche da parte del management, i casi portati in giudizio e la pessima stampa tarparono le ali al progetto.
La piccola Ford – a cui va il merito di aver aperto una strada nuova e coraggiosa per il suo Paese, vendette “solo” 3.1 milioni di esemplari. Il programma fu chiuso dopo nove anni, mentre avrebbe potuto avere orizzonti più vasti.  A rimpiazzarlo sarebbe arrivata la Ford Fiesta, disegnata alla Ghia di Torino e frutto di una vera joint- venture della divisione europea.  Ma insieme alla Fiesta (davvero troppo piccola per conquistare gli americani) arrivarono le VW Rabbit, le Civic e le Corolla, a milioni, che insieme ad altri modelli venuti da lontano avrebbero lasciato per sempre al palo le Tre Grandi di Detroit.

 

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