Nata come aggiornamento della MK I, la prima berlina del Giaguaro con scocca portante, la MK II venne presentata al Salone di Londra del 1959. Quest’ultima beneficiando di importanti migliorie a livello meccanico e stilistico si affermò ben presto come una delle auto inglesi più ambite e prestigiose.
Il detto “buona la prima” non è sempre valido: nella seconda metà degli anni 50 le Jaguar 2.4 e 3.4 Litre, note con la denominazione (retroattiva) Mark I, a fronte di un telaio di concezione moderna delusero le aspettative, soprattutto dal punto di vista dinamico. Sir William Lyons, patron della Jaguar, decise dunque di correre ai ripari apportando alcune modifiche mirate a un progetto di per sé molto valido. E, durante la kermesse londinese nell’ottobre del 1959, venne svelata una delle Jaguar più amate di sempre: la Mark II, MK II nel gergo degli appassionati.
Lo stile. A prima vista la MK I e MK II erano molto simili, le differenze si concentravano infatti al di sopra della linea di cintura: l’intero padiglione venne rimodellato. Ne risultò in aumento del 18% della superficie vetrata, ottenuta con i montanti anteriori più sottili e il lunotto più ampio. I montanti posteriori, più tondeggianti, prendevano la caratteristica forma a “D” Jaguar della portiera posteriore mentre nuove cornici cromate donavano importanza alla vista laterale. La griglia del radiatore fu aggiornata, parallelamente agli indicatori di direzione e le luci di stop e fendinebbia. L’impianto di riscaldamento venne riprogettato integrando delle canaline per il vano posteriore. Infine, venne adottata una nuova disposizione della strumentazione, ripresa su tutte le vetture Jaguar prodotte fino alla seconda serie della XJ, lanciata nel 1973.
Bella e veloce. La Jaguar Mark 2 era una berlina dalle linee seducenti e dalle prestazioni piuttosto elevate per i suoi tempi. Sir Lyons in una nota pubblicità, presentava l’ultima nata in casa Jaguar con questo slogan: “Grace, Space, Pace” (grazia, spazio, andatura), in riferimento alle principali qualità del modello.
La MK II era equipaggiata con l’avanzato motore sei cilindri in linea “XK6”, declinato in tre versioni: 2.4, 3.4 e 3.8 litri. L’unità di base, pur indicata come 2,4, con una cilindrata di 2.483 cc era più prossima ai 2,5 litri e poteva erogare 120 CV. Di ben altra caratura il 3,4 litri da 3.442 cc, capace di 210 CV. Al vertice della gamma il 3,8 litri da 3.781 centimetri cubici e 220 CV, pensato principalmente per il mercato americano.
Su tutte le varianti era prevista la trasmissione prevedeva un cambio manuale a quattro marce, con la prima non sincronizzata. A richiesta erano disponibili l’overdrive opzionale oppure un cambio automatico a tre velocità. Sulla 3.8 Litre era presente anche un il differenziale autobloccante Powr-Lok.
Superberlina all’inglese. Sulla MK II la carreggiata posteriore venne maggiorata e la geometria della sospensione anteriore fu riorganizzata nell’ottica di elevare il centro di rollio. Nuovo anche l’impianto frenante con quattro freni a disco. Venne mantenuto, tuttavia il ponte rigido posteriore con sospensioni a balestra. Tutto ciò portò a un aggravio di 100 kg rispetto alle precedenti Jaguar 2.4 e 3.4 Litre che, tuttavia, non compromise le prestazioni e l’handling, nettamente migliori rispetto al passato.
La Jaguar MK II, con la sua linea seducente e la profusione di pelle e radica, si conquistò ben presto un posto d’onore nei garage delle famiglie inglesi più in vista e… solo: potendo superare (nelle motorizzazioni di punta) i 200 all’ora, accelerando da 0-100 km/h in circa 8,5 secondi, divenne anche l’auto preferita dai rapinatori inglesi. Ma il “derby della giustizia” vide la MK II vestire pure la livrea della polizia britannica, che apprezzò questo modello per le stesse ragioni.
Il motorsport. Le eccellenti qualità intrinseche permisero alla MK II con motore 3.8 litri di affermarsi anche nelle competizioni. Bob Jane si aggiudicò l’Australian Touring Car Championship (Campionato Australiano per Automobili da Turismo) per due anni consecutivi: nel 1962 e nel 1963, questa volta con un modello modificato con motore da 4,1 litri. Lo stesso anno Michael Parkes e Jimmy Blumer primeggiavano alla sei ore “The Motor Six Hours International Saloon Car Race”. E, sempre a bordo della Jaguar MK II, Peter Nöcker vinse durante l’European Touring Car Challenge del 1963. Ma una delle vittorie più importanti resta quella di Roy Salvadori e Denny Hulme alla Sei Ore di Brands Hatch.
La sua indole grintosa le consente tutt’oggi di esibirsi in spettacolari imprese sportive nei più prestigiosi eventi riservati alle auto storiche. Per farsi un’idea delle sue potenzialità basta guardare i video dei serratissimi duelli che l’hanno vista protagonista durante le varie edizioni del Goodwood Revival.
Ancora più chic. Dal 1962 al 1969 Jaguar propose la Mark II anche nella prestigiosa variante Daimler. Caratterizzata dalla tipica mascherina zigrinata e indicata come Daimler 2.5 Litre V8, la più eclusiva tra le MK II era equipaggiata con un motore specifico: un otto cilindri a V da 142 CV. Oltre ad essere più potente del 2,4 litri XK6, il V8 Daimler era più compatto e leggero di una settantina di chili. La significativa riduzione della massa sull’asse anteriore implementò ulteriormente il sottosterzo contribuendo ad un’ottima tenuta di strada.
Ma le Daimler conquistavano la clientela più esigente per il sontuoso allestimento interno, dove la profusione di pelle Connoly e i legni pregiati, con finiture dedicate, davano vita a un vero e proprio salotto all’inglese. La ciliegina sulla torta era data dall’erogazione vellutata e dal timbro distintivo del motore V8.
le Jaguar 240 e 340. Nell’autunno 1967 la produzione del modello 3,8 litri venne discontinuata e le MK II 2,4 e 3,4 litri furono ribattezzate rispettivamente Jaguar 240 e 340 mentre la Daimler passava alla nuova nomenclatura “V8-250”. L’ultima ad uscire di scena, nell’aprile 1969, fu la 240.
A livello tecnico, con la nuova la testa dei cilindri e l’impianto di aspirazione riprogettato la potenza della 240 passava da 120 a 133 CV. Questa veniva erogata ad un regime di rotazione leggermente inferiore mentre la coppia massima aumentò. Anche la trasmissione automatica venne aggiornata, venne montato il più recente cambio Borg-Warner 35. Infine, gli intervalli di manutenzione furono aumentati da 3.200 a 4.800 km. La Jaguar 240 destò un rinnovato interesse della clientela verso il modello d’ingresso che, alla luce delle sue prestazioni sottotono fino a quel momento era stato poco considerato. In primis mantenne un prezzo d’attacco relativamente basso e, finalmente, poteva superare le fatidiche 100 miglia orarie (160 km/h). La 340, invece, venne dotata (di serie) del servosterzo Marles “Varamatic”.
Economie di scala. Insieme alle modifiche meccaniche, anche lo stile venne rinfrescato: la zona posteriore venne ridisegnata e i paraurti divennero più sottili. Le Jaguar 240 e 340, per poter essere vendute a prezzi concorrenziali (in linea con quelli delle Rover P6) dovettero barattare parte di quei materiali nobili che avevano contraddistinto la MK II fino al 1966: I pregiati rivestimenti in pelle vennero sostituiti dalla similpelle “Ambla” così come la moquette interna venne sostituita da tappeti di livello inferiore.
Inoltre, sul mercato britannico, i fendinebbia anteriori divennero opzionali, sostituiti nell’allestimento standard da prese d’aria circolari.
Fascino senza tempo. La Jaguar MK II non ebbe un erede diretta, già nel 1963 venne proposta la S-Type: modello leggermente più potente e raffinato, con motore da 3,8 litri. Quest’ultima venne a sua volta sostituita dalla Jaguar 420 nel 1966. Entrambe le berline rimasero in produzione fino alla fine del 1968 quando apparve la nuova ammiraglia Jaguar XJ e il modello XJ6 si pose a metà strada tra la 420 e la più imponente Mark X prodotta dal 1961.
Il fascino a tutto tondo e tipicamente britannico della Jaguar MK II resiste tutt’oggi, trovando grande seguito tra appassionati e collezionisti: al punto che, nel 2015, la berlina Jaguar venne scelta da Ian Callum per presentare il suo primo progetto di restomod. In questo caso la grazia d’antan cedeva (ma solo un pochino) alle tentazioni alle performance e i comfort dei nostri tempi.