L’ultima volta che abbiamo visto Fiamma Breschi è stata anche la prima. Era il 9 marzo del 2015, quest’anno. Prima di noi aveva scritto di lei solo Enzo Biagi: Fiamma Breschi era una donna abilissima a non farsi trovare. Ed era altrettanto abile a trovarti lei.
A noi è successo ben due volte. La prima quando in redazione arrivò una sua lettera perché avevamo scritto del suo amato Luigi Musso. La seconda sul marciapiede davanti il civico 16 di una via non lontana dal centro di Firenze, dove viveva. E dove il 9 marzo la incontrammo.
Al telefono ci aveva detto che il suo nome l’avremmo trovato sul citofono e di suonare appena saremmo arrivati. Lo stavamo facendo. Una volta, due volte, tre: nessuna risposta. Poco distante una donna con i capelli biondi perfettamente in piega e la giacca rosa osservava la scena, ma non tenemmo conto di quella presenza, almeno fino a quando non incrociammo il suo sguardo. Allora capimmo, e capì anche lei: tese la mano, pronta a una stretta decisa: “Piacere io sono Fiamma”. Fiamma Breschi era così: diretta, travolgente e con un sorriso che le teneva il volto costantemente illuminato.
Fiamma Breschi è morta lo scorso 20 novembre. Aveva 81 anni. Ripubblichiamo l’articolo di allora per essere noi, questa volta, a ritrovarla. E perché anche voi non la perdiate.
Meriterebbe il copione di un film e non basterebbe un libro per raccontare la vita di Fiamma Breschi. Eppure le interviste che ha rilasciato si contano sulle dita di una mano: una è quella che concesse a Enzo Biagi nel 1980, per il libro “Ferrari”. Un’altra è quella che state leggendo.
Fiamma Breschi è stata la compagna di Luigi Musso, il pilota della Ferrari scomparso a Reims nell’incidente innescato da Mike Hawthorn il 6 luglio del 1958 (“Quando il dottore mi disse che Luigi era morto feci per lanciarmi verso una finestra aperta dell’albergo, ma una stretta di mani mi afferrò e mi riportò alla realtà: erano quelle di Beba, la compagna di Juan Manuel Fangio”). Per oltre trent’anni è stata confidente, amica e “spia” di Enzo Ferrari (“Mi scriveva lettere tutti i giorni, a volte più d’una al giorno, con l’inconfondibile inchiostro viola e la sua grafia di traverso: finì col chiedermi di sposarlo ma io gli risposi di no”). E quando un anno e mezzo fa, dovendo ricordare su queste stesse pagine la figura di Luigi Musso a novant’anni dalla nascita, abbiamo cercato di contattarla, sembrava sparita dalla faccia della terra. Nessun riferimento sull’elenco telefonico, nessuno “del giro” che avesse notizie di lei, nessuna pagina Internet con un suo contatto. Unico indizio il libro che pubblicò nel 1998 – “Il mio Ferrari” – in cui scrisse la sua storia: troppo bella per non essere raccontata.
Strano ma vero per una donna che per anni è stata testimone, seppur discreta, di un mondo perennemente sotto i riflettori come quello della Formula 1. Una donna che ha potuto vantare amicizie illustri (“Delia Scala la conobbi quando era la compagna di Eugenio Castellotti, siamo rimaste amiche fino a quando è mancata; a Vittorio Gassman ho rifiutato un passaggio sulla mia auto, me lo chiese in modo molto scortese; Roberto Rossellini venne a casa mia perché lo aiutassi a convincere Enzo Ferrari a fare un film su di lui”). Sorprendente, invece, è stato per noi il fatto avvenuto poco dopo la pubblicazione del servizio su Luigi Musso (vedi Ruoteclassiche di luglio 2014): ricevere in redazione la lettera, rigorosamente scritta a mano, in cui Fiamma Breschi ci ringraziava per quel ricordo. Sì, è stata lei a trovare noi.
Una vita da film
La casa di Firenze dove ci accoglie è la stessa dove Rossellini le chiese quel favore. A una signora non andrebbero fatte certe domande ma della sua età Fiamma Breschi non fa mistero: “Sono nata a Firenze il 24 aprile del 1934”. Il primo incontro con i motori avvenne poco tempo dopo: “A nove anni ho messo in moto un’automobile”. La Topolino dello zio, che tutte le sere parcheggiava sotto gli occhi di Fiamma: “Un giorno si scorderà dentro le chiavi, mi dicevo. E se si scorderà le chiavi, io giro! Sicché un giorno le lasciò e io ho girato. A 14 anni già guidavo, a 18 ho preso la patente”. Si diverte come una matta a raccontarci quel fatto. Fiamma Breschi è così: con una vitalità travolgente e un sorriso che ancora oggi le fa risplendere il volto (ci chiede però di non fotografarla, dissentiamo ma rispettiamo la sua scelta ndr).
Nella sua vita Luigi Musso arrivò quando di anni lei ne aveva invece diciassette: “Bello, alto e due occhi… due occhi! Quando lo vidi la prima volta lui neanche mi notò ma il giorno dopo ci incontrammo di nuovo per fare una gita con degli amici e io mi infilai per prima nella sua Lancia ‘Sport’ rossa”. Il suo modo di raccontare è spassoso, incalzante, con il ritmo di quella parlata arguta nei toni e aspirata nel suono che solo chi ha origini toscane può vantare. “Il giorno che ho preso la patente io e Luigi andammo subito a fare un giro in macchina e a un certo punto lui mi cedette il volante. Mi fermò due curve dopo: ‘Ma chi ti ha dato la patente vorrei sapere io!’. Allora mi spiegò qual era la maniera di stare seduti, le posizioni delle mani, come tenere sotto controllo gli altri automobilisti. Mi fece vedere che il passeggero deve dondolare ma non rimbalzare spiegandomi che quello è un segnale di una guida pulita, quella che paga di più, come era appunto la sua. Non pensate che fossero solo i trucchi di un pilota, quelle sono le regole per guidare nel modo corretto. E a me poi queste regole, nella vita, sono servite per fare tante cose”.
Come diventare molti anni più tardi la “spia” di Enzo Ferrari. “Ferrari, e questa è storia nota, non seguiva mai le gare di persona. Allora a un certo punto decise di spedirmi a Montecarlo dove si decideva il mercato piloti”. Fiamma – tira le somme oggi – ha conosciuto tre generazioni di piloti, da Fangio a Senna. Ha cominciato a frequentare i box quando le ruote si cambiavano a colpi di mazzuolo di rame e la benzina si metteva nel serbatoio con l’imbuto. Ha visto gli ingaggi dei piloti moltiplicarsi da qualche decina di migliaia di lire a miliardi. “Un po’ d’esperienza insomma ce l’avevo e allora, a Montecarlo, in veste di inviata speciale per Ferrari, cercavo di capire che aria tirasse e di considerare le opportunità. Poi gli telefonavo e gli raccontavo quello che vedevo, quello che sentivo e quello che sembrava a me. Gli facevo arrivare il mio punto di vista che era pulito, sincero, perché non era influenzato da tutti i meccanismi della squadra: le regole che mi aveva insegnato Luigi vent’anni prima mi stavano servendo per capire quali fossero i piloti che valeva la pena portare a Maranello”.
L’incontro col Drake
Enzo Ferrari entrò dirompente nella vita di Fiamma Breschi nei mesi successivi alla morte di Musso. “Già lo conoscevo, ovviamente, perché Luigi correva per lui. Ma dopo l’incidente mi ammalai, una grave forma di epatite, e fu allora che Ferrari cominciò a scrivermi le sue lettere”. Qualcuna è andata persa, qualcuna è finita in mille pezzi, ma le altre ci sono ancora: “Certi discorsi, senza ‘le prove’, mica li farei. In questa corrispondenza durata anni ci sono anche le dichiarazioni – chiare, nitide, decise – in cui Ferrari mi chiese a un certo punto di diventare sua moglie”. Ma Fiamma – la voce si fa seria – disse di no.
Era faticoso essere “Ferrari”, ci racconta Fiamma. “Non c’è un motivo ma a un certo punto della sua vita scelse me per confidarsi. Mi rendo conto solo adesso il bisogno che avesse di farlo. Temeva che qualcuno potesse scoprire i suoi lati deboli, le sue paure, le sue contraddizioni. Si sentiva troppo conosciuto, troppo discusso, troppo ingombrante. Soprattutto si sentiva solo”.
Il tocco femminile
“Quando l’ho conosciuto – ricorda ancora Fiamma – Ferrari aveva i calzini corti e i pantaloni ascellari. Poi negli anni siamo entrati sempre più in confidenza e gli ho consigliato (dice “consigliato” ma l’espressione furba che ha stampata sul volto suggerisce “imposto” ndr) di vestirsi in maniera diversa. Più elegante, più moderno, gli sceglievo le cravatte. E lui, che era una persona intelligente, mi assecondava perché capiva che la sua figura ne guadagnava”.
Fiamma non si limita a intervenire sullo stile personale di Enzo Ferrari perché, a un certo punto, dice la sua anche su quello delle Ferrari. “Parliamo di colori?”, ci chiede lei fingendo disinteresse, come se l’argomento non fosse uno dei suoi preferiti. Riparte come un fiume in piena: “Il giallo a me è sempre piaciuto, era anche il colore del casco di Luigi. Un giorno mi faccio un vestito di un bel giallo, tutto stretto, con un giacchino sopra, e penso che quel colore sarebbe stato proprio bene su una Ferrari. Vado allora da Boano, che era uno dei migliori carrozzieri sulla piazza: ‘Mi fai questo giallo qui?’. Lui ci lavora quindici giorni, poi mi chiama: ‘Mi dispiace, non mi viene, questo giallo schianta’. Allora vado da Scaglietti, che la prende un po’ come una sfida visto che Boano non era riuscito. Mi chiama otto giorni più tardi – mi confesserà poi che ci aveva lavorato giorno e notte – per dirmi che ce l’aveva fatta”. Una 275 GTB di questo colore, col muso lungo (“Anche quella fu una mia idea, la proposi io a Ferrari facendo uno scarabocchio su un disegno della versione originale ispirandomi al cofano dell’auto che guida Crudelia De Mon in un cartone animato”), va al Salone di Ginevra ma è un disastro, non piace a nessuno. “Non capivo”, riprende Fiamma. “Poi l’ho vista: avete presente un bicchiere di vino bianco annacquato? Ecco, era così. Però mica mi sono arresa e al Salone di Parigi fu mandata un’altra 275 GTB, gialla come dicevo io. Il resto è storia nota”.
Il nuovo colore si chiama Giallo Fly perché, ci confida ancora Fiamma, Enzo Ferrari le disse che Giallo Fiamma non si poteva fare: “Almeno c’era la ‘F’, e poi mi scrisse questo…”. Ci mostra una dedica sulla prima pagina di una copia de “Le mie gioie terribili” tradotta per il Sol Levante: 24 aprile 1959, giallo romano epatico, riferendosi al ricovero di Fiamma nella clinica di Roma. E poi sotto: 24 aprile 1966, Giallo Fly ha raggiunto il Giappone! Firmato Enzo Ferrari.
Ci si sente un po’ stupidi a fare questa domanda, ma che tipo era Enzo Ferrari? “Un uomo sopra il naturale: io un’intelligenza così non l’ho mai incontrata altrove. Ferrari era un uomo onesto e furbo da morire. Con la vita aveva un rapporto da divoratore e occupava tutto lo spazio delle persone che gli erano intorno, fossero i suoi piloti, i suoi figli o le sue donne. È stato un costruttore di macchine e un distruttore di uomini, ma se entravi nella sua orbita avresti dato qualunque cosa per non uscirne”. Conclude: “Tra di noi c’è sempre stato un equivoco di fondo: io volevo un ruolo nel mondo delle auto, lui pensava che mi bastasse vivere nel suo cono di luce. ‘Quando ti ricapita una fortuna del genere?’, mi diceva mia madre. Infatti non è più capitata ma io non ho mai smesso di amare il mio uomo, Luigi Musso, ed è così ancora oggi”.
Alessandro Barteletti