La tempesta Covid 19 non risparmia nessuno ed è proprio tra i fulmini e le zone rosse che lo sforzo delle istituzioni museali assume un particolare significato. A dieci anni dalla riapertura, una interessante conferenza ripercorre la storia di questa struttura, tra le realtà più importanti al mondo nel settore dell’automobilismo storico. Per rivedere il dibattito in streaming, cliccate sulle keywords in grassetto.
Il traguardo dei dieci anni del nuovo Museo Nazionale dell’Auto di Torino, riaperto nel marzo 2011 dopo tre anni di lavori, è stato festeggiato con una bella conferenza sul Web dai manager di oggi e di ieri, gli architetti e i creativi, i politici e fondatori. Le celebrazioni erano ovviamente previste dal vivo, ma ci si è dovuti adeguare. La pandemia, come noto, ha colpito in modo drammatico anche il mondo della cultura. Obbligando i musei a chiudere, a dialogare a distanza, a diventare ancora più virtuali e “diffusi”.
Il Mauto ha saputo costruire, in questi dieci anni, importanti partnership internazionali con le principali collezioni europee; le sue automobili – in gran parte funzionanti – escono ormai dal museo, percorrono le strade del mondo, partecipano ai raduni e alle gare più celebrate (dalla London-Brighton alla Mille Miglia). Anche questo è un modo di resistere, di rimanere aperti e visibili in attesa che passi ‘a nottata.
Un benchmark. Ma torniamo al lavoro di una decade. Il New York Times, dopo la riapertura, lo aveva definito “uno dei cinquanta musei da visitare almeno una volta”. Due milioni di persone hanno poi seguito il consiglio, dall’Italia e dal mondo. I turisti francesi, in particolare, sono diventati assidui. Ma anche da Milano, con trenta minuti di Frecciarossa, sono in molti a muoversi: forse è caduta una briciola di quella diffidenza che allontana, stupidamente, le due metropoli.
Sia le gallerie permanenti che le mostre temporanee – che raccontano insieme la storia dell’auto e quella del Ventesimo Secolo – hanno avuto successo. Perché il museo di Torino, lo avevamo scritto alla fine del nostro “gran tour” di due anni fa, non ha probabilmente eguali in Europa. Aldilà delle risorse e delle tradizioni, anche le istituzioni più ricche e famose hanno, spesso, il gusto del garage. Luccicante, fantasmagorico, ma alla fine un po’ noioso. Soprattutto agli occhi di chi di automobile non vive più. I giovani, le famiglie, i non esperti, il pubblico di domani: quel flusso di visitatori da circuiti turistici, che giustifica, oggi, l’esistenza del museo moderno.
Un’esposizione viva. L’effetto garage, lo ha detto bene François Confino in collegamento da Parigi, è stata la prima cosa che il nuovo MAUTO ha spazzato via nel 2011. “Vedevo gli altri musei dell’auto come raccolte di corpi morti, immobili – ha ricordato l’autore del percorso museale – io invece ho cercato di dar loro vita e mobilità. Anche un po’ teatrale, un osé, se si vuole, pur di continuare col sogno.” E’ l’aspetto che più emerge dalle interviste al pubblico che esce. Che sottolinea come le trovate scenografiche, l’uso dell’immagine animata, dei documentari, ripreso anche nelle tante mostre monografiche, faccia del Mauto un museo divertente, sorprendente, che anche a distanza di anni continua ad evolvere. Un risultato non banale, soprattutto in tempi di ristrettezze.
La piazza. Cino Zucchi è l’architetto che ha avuto il non facile compito di raddoppiare la superficie espositiva difendendo le cose più belle dell’edifico storico. Questo, lo ricordiamo, fu opera del 1959 di Amedeo Albertini ed era apprezzato soprattutto per la monumentale facciata curva, rivestita di pietra. Parlando da Milano, Zucchi ha ricordato come nacque l’idea della pelle di vetro che, un po’ come una carrozzeria, riveste buona parte del “telaio” del vecchio edificio. E poi la reinvenzione dei cortili, che una volta coperti amplificano, spettacolarizzano e tengono unito l’insieme. Quello maggiore, battezzato “la piazza” è stato completamente rivestito d’alluminio, diventando una della icone del nuovo museo: accoglie eventi speciali e convegni per le maggiori aziende, che contribuiscono in questo modo al bilancio del Mauto.
Nuove leve e vecchia guardia. Insieme ai creativi, i manager: Carlo Zunino al tempo presidente, e Rodolfo Gaffino direttore e “pivot” della riapertura. Entrambi uomini Fiat della vecchia guardia sono riusciti a condurre in porto un progetto complesso, con un budget di mille euro al metro quadro: un decimo di operazioni quali quella del MAXI di Roma, solo per citare un esempio. Zunino ha definito il museo che ereditò alla fine degli anni ’90, “una bella addormentata”, con molte rughe e poca voglia di conquistare nuovi visitatori. Gaffino ha elogiato il lavoro di squadra, senza nascondere qualche momento di incomprensione con il team creativo che, secondo lui, spingeva un po’ agli estremi. Ma il direttore “emerito” ha anche riconosciuto la genialità dell’approccio di Confino (secondo il quale due anfore greche in mostra sono capolavori, venti diventano un magazzino) e dello stile di Zucchi, che ha saputo aggiungere e ammodernare senza avvilire il passato. Un guardare al futuro, una ricerca di novità che il pubblico esige.
Gli eventi futuri. Benedetto Camerana, presidente dal 2012 in poi e Mariella Mengozzi, direttore dal 2017, sembrano impegnati all’unisono. Hanno ricordato le nuove aggiunte, dalle sale virtuali dedicate al fondatore, Carlo Biscaretti di Ruffia, alla completa ristrutturazione del nuovo spazio per le temporanee, che quest’anno accoglierà i 90 (+1) anni di Pininfarina, e, in autunno, due interessanti omaggi al centenario di Giovanni Michelotti e agli anni ruggenti delle corse in salita (“Quei temerari sulle strade bianche”). Per l’estate, invece, è prevista una mostra su Pio Manzù, l’ecclettico designer della scuola di Ulm, che disegnò la Fiat 127 mezzo secolo fa.
Non è un programma da poco, dopo un anno da dimenticare ed un altro che, finora e in attesa del vaccino, ne ha ripercorso i traumi.