Al Salone di Ginevra di trent’anni fa debuttava in anteprima mondiale la Opel Omega Lotus, berlina ad alte prestazioni messa a punto con il supporto dei tecnici della Casa di Heithel.
Potente e brutale. Tanto aggressiva e “sfacciata” fuori quanto accogliente all’interno dove, in netto contrasto con le vistose (ma necessarie) appendici aerodinamiche della carrozzeria, ad accogliere i passeggeri ci sono comodi sedili in raffinata pelle Connolly. Sono trascorsi trent’anni esatti dall’unveiling della Opel Omega Lotus al Salone di Ginevra, eppure questo modello tutto muscoli non smette di infiammare i cuori degli appassionati.
C’è tuning e tuning. Quando infatti a dirigere le elaborazioni viene chiamato un team di tecnici come quelli della Lotus, abituati a lavorare quotidianamente su auto sportive e da competizione, il risultato è da applausi. Niente è messo a casaccio, o per (cattivo) gusto estetico, ma anzi tutto è studiato nel minimo dettaglio per offrire un’esperienza di guida indimenticabile. È questo, in sostanza, l’obiettivo ultimo della Opel, che bussa alle porte della Casa di Hethel per trasformare la Omega da tranquilla berlina da famiglia in una Formula 1 a quattro porte.
Fila come una Porsche. L’effetto missile si palesa al primo sguardo, ma è aprendo il cofano che si rimane a bocca aperta. Chi la vide a Ginevra trent’anni fa (“sembra costruita coi pezzi di Robocop”, era un po’ il commento generale – e ironico – di visitatori e addetti ai lavori) ebbe la pelle d’oca solo a leggere la scheda tecnica: motore “3600” 6 cilindri biturbo bialbero a 24 valvole da 377 CV, da 0 a 100 km/h in 5,4 secondi, roba da far (quasi) impallidire Porsche e Ferrari.
Una buona base di partenza. Per ragioni di ovvia opportunità furono utilizzate molte parti della Omega “3000” (come, per esempio, la scocca e alcuni elementi delle sospensioni), ma laddove fu necessario si partì dal foglio bianco: nuova la testata in alluminio, nuovi i due turbocompressori Garrett e anche i due intercooler, che con il loro funzionamento incrementavano la massa d’aria per la combustione e aumentavano così sia il rendimento che la potenza del motore.
Soluzioni raffinate. Una chicca, per l’epoca, il cambio manuale a sei marce: fu un vero e proprio prodigio di ingegneria che consentiva alla Omega Lotus di sfruttare al 100% la coppia e la potenza del motore biturbo. I rapporti delle prime cinque marce erano corti, da sportiva vera, mentre quello finale, più lungo, era stato tarato secondo la logica del risparmio di carburante e consentiva regimi di rotazione molto bassi. Per resistere alle enormi sollecitazioni fu studiata una frizione da 9.5″ completamente nuova. La molla a diaframma non lavorava a compressione, come avviene di solito, ma a trazione, in modo da incrementare la pressione di contatto sullo spingidisco. Il risultato andava tutto a beneficio della facilità di azionamento del comando, con uno sforzo del pedale ridotto al minimo.
Incollata alla strada. Anche l’autotelaio fu oggetto di modifiche, a cominciare dalla sospensione posteriore che, nell’ottica di migliorare la risposta alle reazioni trasversali (e di conseguenza la tenuta di strada), prevedeva, rispetto a quella a bracci semioscillanti della Opel Omega di serie, l’aggiunta di due puntoni. Anche il passo crebbe di 18 millimetri, e i grandi cerchi da 17″ montavano pneumatici anteriori da 235/45 e posteriori da 265/40, con freni a disco ventilati di diametro maggiorato a 320 millimetri.
Tanti muscoli ma anche tanto cervello. Tornando al design, la carrozzeria fu ridisegnata con alcune appendici funzionali al miglioramento dell’aerodinamica, con il sorprendente risultato di un coefficiente di penetrazione aerodinamica di 0,30: roba da far invidia a molte coupé sportive dell’epoca. I grandi spoiler davanti e dietro, i passaruota allargati, la presa d’aria sul cofano motore (in corrispondenza dei due turbocompressori), infine, la distinguevano dalla (più) sobria Omega “3000”. Esclusiva anche la livrea, un elegante verde metallizzato.