Centodieci anni fa nasceva Giovanni Savonuzzi. Progettista visionario, ingegnere con la matita, sempre a caccia di nuove sfide. La sua vita, dalla paternità della Cisitalia all’auto a turbina della Chrysler, al Centro Ricerche Fiat, dove finì la sua carriera, fu una lunga serie di sfide.
Alla Fiera di Padova, lo scorso ottobre, si è sfiorato l’incidente diplomatico. Anzi, una piccola tempesta. Un gruppo di esperti era radunato allo stand ASI per fare il punto sul novantesimo compleanno della Pininfarina. Testimoni e giornalisti in studio, Paolo Pininfarina in collegamento video da Cambiano, il decano Aldo Brovarone – da poco passato a miglior vita – presentissimo nello spirito. E poi Alberta Savonuzzi, figlia di Giovanni – nato centodieci anni fa a Ferrara – occasionale e guardinga, tra il pubblico.
A un certo punto Pininfarina, che troneggiava sullo schermo, ha detto qualcosa che assomigliava a “…quando facemmo la Cisitalia…” E lì è scoppiato un fulmine.
La signora Savonuzzi – notoriamente donna di carattere – si è alzata in piedi gridando come un’aquila che la Cisitalia l’aveva fatta suo padre e Pinin, al più, l’aveva costruita. Era uno scandalo – concludeva la signora – che, nel 2020, ancora lo si negasse. Sul palco e in platea serpeggiava il nervosismo, mentre i “saggi “cercavano di gettare acqua sul fuoco. Paolo Pininfarina, che non riusciva ad ascoltare il ritorno audio, era tagliato fuori dal bailamme e la Savonuzzi minacciava di rincarar la dose. Alla fine il sottoscritto ha tentato un compromesso: Savonuzzi primo violino, Pinin grande direttore d’orchestra. Capace di portare la 202 al successo e renderla perfetta anche nella coda, grazie al suo occhio sopraffino.
Opera d’arte a motore. Tant’è. Questa vettura miracolosa, a oltre settant’anni dal debutto, riesce ancora a scatenare il putiferio: tutti la amano, tutti la vogliono ma, a parte il centinaio di esemplari superstiti e i prezzi da opera d’arte, la “scultura in movimento” resta imprevedibile. Chissà se Savonuzzi, che l’aveva immaginata come puledro da corsa – prima con la “Cassone”, poi con le MM coupé e spider, si sarebbe aspettato un clamore del genere. Probabilmente sì; del resto, anche la sua vita era stata tempestosa.
“Un aristocratico di provincia, con estro e modi rinascimentali” ama ricordarlo la figlia Alberta. Ma a dispetto del suo ingegno, uomo umile tutta la vita. Presentato a Piero Dusio da Dante Giacosa, progettò nel solco del maestro, ma anche fuori, con una tendenza all’innovazione e all’esperimento che diventava una sfida personale. Quando, nel 1951, la 202 fu esposta a New York e poi entrò nella collezione permanente del MoMa, Savonuzzi disse a una conferenza di ingegneri: “in fondo io mi sono sempre considerato un artista”. Ma era anche il tecnico che spaccava il minuto negli appuntamenti e il capello in quattro sul tavolo da disegno. Negli anni ruggenti, l’ingegneria era insieme una scienza creativa, come forse solo quella dei progettisti spaziali di Perseverance, oggi, sa essere.
Quando nacque la SVA Savonuzzi diede forse il meglio, amante come era dei gruppi di lavoro piccoli, affiatati, uniti dalla comunione tecnica e da forti relazioni umane. Le stesse che si ripeterono alla Ghia, con il vulcanico Gigi Segre: due uomini all’opposto, ma che si capivano benissimo e insieme diventavano imbattibili. Segre esuberante, simpatico, grande fiuto negli affari, Savonuzzi riflessivo e silenzioso, che lasciava al patron il compito di realizzare le sue idee splendide e pazzesche.
Il forward design. Un altro uomo, anch’egli visionario, credette alle idee pazzesche. Era Virgil Exner che fece del “guardare avanti” la nuova strategia creativa della Chrysler. Il colosso americano, come del resto l’italianissima Fiat, al tempo era governato dagli ingegneri, non dai designer. Fu grazie ai concept voluti da Exner, alcuni semplicemente stravaganti, altri veri capolavori, che il marchio perse la sua reputazione classica, quasi fuori moda e si vestì delle sue celebri pinne caudali, prese in prestito da quelle dei jet.
Se tutte le Chrysler divennero più sottili, più basse, più levigate, il prototipo Gilda, commissionato alla Ghia di Segre e Savonuzzi fece scuola a sé. E’ ancora oggi considerato uno degli esempi più spinti di “streamline” design, un oggetto fuori dal tempo e dalle leggi dell’automobile, che per molti aspetti anticipa di quindici anni la Ferrari Modulo.
Spaghetti a Detroit. Si diceva della vita tempestosa di Giovanni Savonuzzi. Nel 1957 accettò l’offerta della Chrysler di trasferirsi a Detroit e diventare uno dei responsabili dello sviluppo dell’auto a turbina. Da un lato il coronamento di un sogno, che lo riportava agli anni dell’università, dall’altro un salto nel buio e nel calderone da trentamila progettisti di Highland Park. Non proprio ciò che il libero battitore aveva sempre inseguito.
Savonuzzi si divertì immensamente, con risorse illimitate a disposizione (soprattutto se paragonate alle ristrettezze italiche) e un team di giovani ingeneri che lo seguì in tutto. Ma il dramma dell’uomo goccia d’acqua che si perde nell’oceano finì per travolgerlo. Non era adatto al metodo americano, alla procedura e la filosofia della corporation, che più di una voce fuori dal coro ha bisogno di uomini-azienda.
Avanti un altro. Come noto l’auto a turbina fu un bagno di sangue, con la Chrysler in particolare giunta a un passo dalla produzione (anzi, già cinquanta esemplari consegnati al pubblico-cavia), salvo rendersi conto che le novità e problemi che il programma portava con sé non facevano approdare il consumatore a nessun vantaggio.
Non è dato di sapere quanto Savonuzzi si sia fatto animo amaro per l’eutanasia della sua fascinosissima, ma inutile creatura. Ma c’è da pensare che, con la spinta che lo animava in tutte le sue decisioni, con la sete di guardare sempre oltre lo steccato, non ne abbia avuto il cuore infranto. In fondo, quando un problema era stato risolto, un traguardo raggiunto, smetteva di interessarlo.