È stata l’auto simbolo della ex DDR, ma 25 anni fa ebbe un ruolo cruciale nella caduta del Muro di Berlino. Oggi è l’emblema di quella rivoluzione.
I passeggeri di una Trabant? Parenti stretti! Il nomignolo Traby? L’abbreviazione di “trabiccolo”! I tempi di consegna? Triennali come minimo, ma sempre in anticipo sull’arrivo dell’idraulico! Povera Trabant. Negli anni della Guerra Fredda era il simbolo del fallimento del regime comunista della Germania Est, forse l’auto più inaffidabile del pianeta e le barzellette su di lei si sprecavano. Ma quando il nove novembre del 1989 il Muro di Berlino ha iniziato a frantumarsi c’era lei dietro le rovine. Erano le colonne di vetturette pallide stracariche all’inverosimile di cittadini dell’Est, in coda nei check point di Berlino e di tutta la frontiera tra le due Germanie, a catalizzare l’attenzione del mondo attraverso i filmati trasmessi dai telegiornali.
Quel nove novembre di 25 anni fa, infatti, oltre alla caduta del Muro è avvenuto un altro miracolo: il brutto anatroccolo dell’industria automobilistica mondiale si è improvvisamente trasformato in cigno e da simbolo negativo e fallimentare è diventato l’emblema di una rivoluzione che per molti studiosi è paragonabile per importanza storica alla rivoluzione francese. Mai prima di allora infatti a un’automobile era stato riconosciuto un ruolo simile. In un batter d’occhio la Trabant si è tramutata in oggetto del desiderio, al pari dei pezzi di Muro sopravvissuti alla demolizione. Mettersene in garage una equivaleva (ma ancora oggi il suo mito resta intatto) a possedere un cimelio storico, come per i pezzi di Muro rimasti.
La Automobilwerk Zwickau ha continuato a produrla per un altro paio di anni, fino al 1991, quando era diventato evidente il suo anacronismo. Era un’auto ormai improponibile, superata in ogni suo aspetto, tecnicamente imbarazzante e oltremodo inquinante (il bicilindrico andava a miscela con il 2% di olio). Anacronistica come il regime che l’aveva concepita e del quale la Trabant (il nome significa Satellite, in onore dei successi spaziali sovietici ottenuti con lo Sputnik) era stata fino ad allora lo specchio più fedele.
Prodotta dal 1956, aveva subito le uniche profonde modifiche nel 1965 e da allora non fu quasi più toccata. Solo negli ultimi due anni il vecchio bicilindrico a due tempi fu sostituito con il motore della Volkswagen Polo. Non nella forma comunque (berlina, cabrio e station wagon) e non nei colori, solo tre, sempre gli stessi: grigio, azzurrino e verdino sbiaditi. Quanto all’affidabilità meglio soprassedere.
Costruita in Duroplast, una plastica rinforzata con residui di lana e cotone, simile a una fibra di vetro ma meno resistente, aveva anticipato di decenni (ma senza saperlo) la politica del riciclaggio di cui oggi si fa vanto l’industria automobilistica moderna, ma quel rivestimento fragile allora rendeva praticamente impossibile percepire la corrosione della struttura portante in acciaio. Ci si accorgeva del danno solo quando il pavimento in metallo sprofondava irrimediabilmente sull’asfalto, o quando le sospensioni anteriori non perforavano i punti di attacco superiori. In questo aiutate dalla condizione delle strade della DDR e dal sale sparso in abbondanza nei lunghi inverni locali.
Se nel 1956, con la prima serie chiamata Zwickau P70 (P come plastica, 70 come le decine di cm³ del motore) poteva tenere il passo con la concorrenza occidentale (si trattava di una riedizione riveduta e corretta della DKW del 1940), dal 1965 in poi, nonostante avesse assunto un nuovo aspetto (lo stesso che ha mantenuto fino alla fine dei suoi giorni) e montasse un bicilindrico da 600 cm³ e 26 CV al posto del precedente 500cc da 18 CV, la Trabant 601 (che veniva dopo la P50 e la P60) era già un’auto superata in tutto. L’apparenza più moderna serviva solo a nascondere una sostanza immutata. Così che l’abitacolo, strettissimo, era omologato per quattro adulti ma adatto solo a trasportare bambini; la rumorosità di marcia era fastidiosissima ma non si è mai ricorsi all’antirombo pur di contenerne il peso (625 kg); l’allestimento interno era minimalista ma inefficiente come l’impianto di riscaldamento, sempre fuori uso. Non a caso uno degli accessori più gettonati era un sistema di riscaldamento ausiliario.
La semplicità di costruzione che avrebbe dovuto caratterizzare il modello e giustificarne l’economicità in realtà era la coperta corta di un progetto nato in economia per consentire a tutti i tedeschi orientali di possedere un’auto ma realizzato in modo sciatto, superficiale, tanto approssimativo da renderlo inaffidabile. Le infiltrazioni di acqua nei giorni di pioggia erano la norma e le vibrazioni del motore così forti da richiedere continue messe a punto in officina per preservare dalla rottura tutti gli altri organi.
Anche alla guida le cose non miglioravano. La velocità massima raggiungibile era di 100 km/h, ma per raggiungerla occorrevano 29 secondi, con il solo pilota a bordo. In pratica i 75 km/h erano già un miraggio. I freni a tamburo erano potenti ma poco modulabili; lo sterzo era leggerissimo e le sospensioni molto gommose. Solo il motore, quello sì, era indistruttibile. Nonostante ciò era l’unica auto acquistabile nell’allora DDR, tanto che in 35 anni di vita ne sono state prodotte oltre 3.100.000, molte delle quali ancora in circolazione grazie a collezionisti che ne preservano il ricordo attraverso club di marca e raduni, e grazie anche ai numerosi noleggiatori che la propongono ai turisti in Germania e in alcuni Paesi dell’Est. In Italia sono vendute a prezzi variabili tra i 1.200 e i 6.500 euro. Con tutti i rischi che un simile acquisto comporta. Mitica Trabi.
G.M.