C’è un paradosso che ogni anno si ripete sulle strade della 1000 Miglia. Un paradosso che non riguarda le auto d’epoca, né la rievocazione storica in sé, ma ciò che questo evento rende visibile: un conflitto culturale irrisolto sul ruolo dell’automobile nella società contemporanea.
Durante la corsa, vetture costruite tra il 1927 e il 1957 — rumorose, inquinanti, prive di ogni standard moderno di sicurezza — vengono autorizzate ad attraversare centri storici normalmente interdetti al traffico privato. Sfilano tra ali di folla nei luoghi in cui, per il resto dell’anno, nemmeno una citycar Euro 6 può entrare senza permesso.
Nel frattempo, le auto moderne che accompagnano l’evento per motivi di assistenza o logistica — tutte nuovissime, molte costose — vengono respinte. Obbligate a deviare, a cercare percorsi alternativi, a restare fuori dai varchi elettronici. Ho sperimentato di persona, guidando la Maserati Gran Cabrio 490 con cui ho “scortato” la splendida antenata A6 GCS ex Musso, la frustrazione di vedermi oggetto - a ogni città, ogni borgo, ogni paese attraversato - di un’emarginazione tanto vigorosa nei modi quanto eloquente nel significato: l’accesso al cuore urbano, durante la 1000 Miglia, è riservato a ciò che ha cessato di essere funzionale. È in questo rovesciamento che la 1000 Miglia diventa qualcosa di più di una rievocazione: diventa la scena viva di un conflitto culturale, laboratorio aperto in cui esplode la contraddizione fra il culto dell’automobile come memoria e il rifiuto dell’automobile come attualità.
Celebrazione di bellezza
L’automobile, che nel Novecento è stata l’oggetto tecnico più potente nel ridisegnare spazio, tempo e libertà, può ancora accedere ai luoghi simbolici della collettività, ma solo sotto forma di reliquia. La 1000 Miglia, in questo senso, non è affatto neutrale. È il luogo in cui questa rimozione simbolica diventa visibile, organizzata, spettacolarizzata. Ogni tappa, ogni transito, ogni eccezione concessa alla storica e negata alla moderna è un atto performativo che mette in scena l’ambivalenza della nostra relazione con l’automobile.
Il vero tema non è la nostalgia, ma l’incapacità di integrare l’automobile nel discorso contemporaneo senza espellerla. E allora la ricostruiamo come feticcio, come simulacro, come simbolo sterilizzato. La 1000 Miglia diventa, paradossalmente, l’ultima occasione in cui l’automobile è ancora ammessa nello spazio pubblico. A condizione, però, che serva esclusivamente a celebrare la bellezza o il mito. In questo rovesciamento si cela un messaggio potente, anche se implicito: la città ideale accoglie l’auto solo se è già stata superata. È il trionfo della rappresentazione sulla funzione, della memoria sull’uso, del racconto sull’efficienza.
Del resto, anche la 1000 Miglia in sé è cambiata. Quando la feci per la prima volta nel 1996, a soli trent’anni dalla sua rinascita, la rievocazione portava ancora addosso le incrostazioni della corsa. L’agonismo — mai ufficiale, ma spesso praticato con zelo — si esprimeva in ritmi forsennati, tabelle impossibili da rispettare senza forzature, tratte notturne percorse a velocità che nulla avevano a che fare con la contemplazione del paesaggio o la celebrazione della memoria. Le strade erano teatro di una sfida che cercava di replicare, surrettiziamente, lo spirito della competizione originaria. Era, in fondo, una forma di rimozione speculare a quella di oggi: il passato veniva onorato non attraverso la sua messa in scena, ma tramite la sua ripetizione, per quanto illegittima. E questo, paradossalmente, rischiava di svuotare la 1000 Miglia del suo senso.
Quando la rifeci vent’anni dopo, nel 2016, trovai un clima profondamente diverso. L’evento si era trasformato in un raduno itinerante più ordinato, più rispettoso della dimensione simbolica che della prestazione. L’organizzazione aveva fatto un lavoro sottile ma efficace per disinnescare i residui di spirito corsaiolo: i controlli erano più frequenti, i tempi più rilassati, la pressione competitiva rientrata nei limiti di una sana rivalità tra gentleman driver, le pace car a rallentare le velleità dei piloti. Era ancora una sfida, certo — contro se stessi, contro l’errore, contro la fatica — ma lo era nei confini di un gioco consapevole, quasi rituale. Un rito collettivo, non più una corsa clandestina.
Racconto, più che corsa
Oggi, quasi un decennio più tardi, ho ritrovato una 1000 Miglia ulteriormente trasformata. Non più rievocazione, non più nemmeno raduno: una parata a favor di popolo, compiutamente spettacolarizzata, depurata da ogni tensione tra funzione e rappresentazione. Il percorso stesso sembra disegnato per massimizzare la visibilità, per servire l’applauso, per alimentare una narrazione sempre più mediatizzata. Le vetture non corrono più, non competono, non resistono nemmeno: sfilano. Ogni città è un palcoscenico, ogni piazza un set, ogni passaggio una celebrazione. È la versione definitiva del rovesciamento: l’auto non è più memoria viva, ma immagine da condividere. Un oggetto da venerare nella sua immobilità simbolica, più che nella sua funzione originaria di movimento.
Questa evoluzione non è secondaria. Perché riflette — e accompagna — la trasformazione del nostro rapporto con la velocità, con il rischio, con la spettacolarità. La 1000 Miglia ha imparato, negli anni, a essere meno corsa e più racconto. È un passaggio che può sembrare una perdita e che invece rappresenta una maturazione. Perché restituisce all’evento il suo vero valore: quello di essere una liturgia automobilistica, non una sua caricatura.
Eppure, anche così, resta un momento prezioso. Perché, con tutte le sue contraddizioni, la 1000 Miglia continua a mettere in moto — in senso letterale e simbolico — un’interrogazione collettiva sul nostro rapporto con l’automobile. E lo fa senza bisogno di proclami, senza tesi precostituite, ma semplicemente attraversando il paesaggio, città dopo città, giorno dopo giorno. È questo il suo valore più profondo: il fatto che, pur cambiando pelle, continui a farci riflettere su chi siamo, su che cosa abbiamo perso, e su ciò che la società non sappia più nominare senza vergogna.