Aston Martin Lagonda, geometria edonista - Ruoteclassiche
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24/02/2022 | di Giancarlo Gnepo Kla
Aston Martin Lagonda, geometria edonista
Nel 1976 Aston Martin stupiva con un'inedita ammiraglia: presentata con il nome Lagonda introduceva un nuovo corso stilistico e dotazioni d'avanguardia.
24/02/2022 | di Giancarlo Gnepo Kla

Nel 1976 la gloriosa Casa inglese tornava nel segmento delle berline extra lusso con un’inedita ammiraglia, dalle linee audaci e avveniristiche, foriera di contenuti d’avanguardia e dotazioni sibaritiche.

Al Salone di Londra de 76, Aston Martin tornava a far parlare di sé con una sedan d’altissima gamma che stupiva con proporzioni esagerate, si pensi alla lunghezza di 5,30 m e una linea tutta spigoli, dalla silhouette affilatissima che tagliava anche i ponti con il classicismo dei modelli precedenti. Lo stesso stile venne ripreso pochi anni dopo dalla sportiva “Bulldog”, poi rimasta esemplare unico.
Il frontale acuminato e prominente dell'Aston Martin Lagonda si caratterizzava per i sei faretti rettangolari (tre per lato) sormontati da fari a scomparsa. Anche la tipica calandra Aston Martin, ondulata, lasciava il posto a una semplice mascherina rettangolare. Il posteriore vide invece la coda verticale con i gruppi ottici, anch’essi rettangolari.
A quindici anni dall’esordio della berlina Rapide, Lagonda non era più un marchio a sé ma diveniva il nome dell’ammiraglia Aston Martin: un modello di rottura, sia sul piano stilistico e sia su quello tecnologico.

Il futuro secondo Aston Martin. L’abitacolo, configurato per accogliere quattro passeggeri, alternava il modernismo assoluto delle forme con la tradizione tutta britannica dell’artigianalità, espressa con essenze pregiate per gli inserti, pelle Connolly per i rivestimenti e raffinata moquette per la tappezzeria.
La peculiarità principale stava nella plancia, che prevedeva una delle prime applicazioni su un’auto di serie della strumentazione digitale a cristalli liquidi e comandi vocali (dal 1984), unitamente a una nuova strumentazione a tubo catodico. Una soluzione che definiremmo “moderna”, oggi e puramente fantascientifica all’epoca.

Una GT a quattro porte. Per Aston Martin, la nuova Lagonda doveva essere innanzitutto una supercar, pur declinata nella carrozzeria quattro porte, racchiudendo in sé l’indole sportiva delle coeve GT italiane con il comfort e le dotazioni delle lussuose berline inglesi, leggasi Rolls-Royce e Bentley. E, per questo motivo l’allestimento interno era improntato ad un ricercato minimalismo e includeva un volante monorazza e la console centrale con comandi a sfioramento. La Lagonda offriva poi tutte le classiche dotazioni delle vetture più blasonate come l’aria condizionata (a controllo elettronico) e i quattro alzacristalli elettrici, a cui si aggiungevano: i sedili elettrici, la pedaliera regolabile, il cruise control e, su richiesta, anche il televisore.

La tecnica. La base di partenenza era quella dell’Aston Martin “V8”, opportunamente modificata per garantire più spazio a tutti gli occupanti. Per quanto riguarda le sospensioni, la Lagonda viaggiava su sospensioni anteriori di tipo indipendente mentre per le posteriori era previsto un ponte De Dion unitamente a un dispositivo autolivellante. Considerata la stazza, superiore ai 2.000 kg, l’impianto frenante si avvaleva di freni a disco ventilati. Tra le primizie del modello, vi era poi una delle prime applicazioni di servosterzo ad assistenza variabile, che agevolava le manovre senza inficiare la prontezza e la reattività nella guida veloce.
Con la coupé V8, la Lagonda condivideva anche il propulsore: un otto cilindri a V da 5,3 litri con doppio albero a camme in testa e quattro carburatori doppio corpo Weber. Tutto ciò risultava in una potenza di 340 CV. Per la trasmissione, si poteva scegliere tra lo sportivo cambio manuale a cinque marce o il più comodo automatico a tre rapporti (di origine Chrysler). L’Aston Martin Lagonda poteva raggiungere così i 230 chilometri orari, accelerando da 0 a 100 all’ora in 7 secondi.

L’evoluzione. La produzione della vettura era eseguita in modo totalmente artigianale e ciò rese l’Aston Martin una delle auto più costose del suo tempo, con un prezzo di listino superiore a quello della conterranea Rolls Royce Silver Shadow. Un altro scotto da pagare riguardava l’affidabilità: le prime applicazioni di dispositivi elettronici “complessi” dettero adito a frequenti guasti di natura elettronica.
Nel corso dei quasi 15 anni di produzione, l’Aston Martin Lagonda venne sottoposta a diversi interventi per aggiornare l’estetica e gli allestimenti interni. Importante, in tal senso, il passaggio all’iniezione elettronica (sviluppata da Weber-Marelli) che portò a una diminuzione della potenza a 293 CV. Per gli esemplari catalizzati, la cavalleria crollava a 243 CV.

Guardava a Oriente . Con il restyling del 1987, venne semplificato sia lo stile, leggermente meno spigoloso ma soprattutto la strumentazione, che divenne analogica e meno complicata di quella iniziale.
Intanto, a fine anni 80, l’Aston Martin venne rilevata dalla Ford e di lì a breve calò il sipario sulla Lagonda. La vettura richiedeva infatti tempi lunghissimi per le fasi di assemblaggio e finizione, senza contare i prezzi proibitivi e un’affidabilità non esemplare. Si calcola che l’Aston Martin Lagonda, prodotta fino al 1989, abbia totalizzato poco meno di 650 unità finite per gran parte nei Paesi del Medioriente, dove il fascino “eccentrico” della vettura fu molto apprezzato.

L’eredità. Per una ventina d’anni il nome Lagonda scomparve dai radar, eccezion fatta per una concept car del 1993, proposta questa volta con una linea a tutto tondo.
L’eredità della grande ammiraglia Aston martin venne raccolta, in parte, dalla Aston Martin Rapide del 2009 (realizzata su base DB9) ma soprattutto dalla “Lagonda Taraf”, prodotta in serie limitata per una pletora di selezionatissimi collezionisti. Quest’ultima, derivata dalla Rapide del Terzo Millennio, evocava l’imponenza della Lagonda anni 70, con una carrozzeria in fibra di carbonio e proposta ad un prezzo vicino al milione di euro replicava tutta l’esclusività del modello d’origine.

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