Molto, molto difficile non rimanere colpiti da queste tre auto, anche per chi è abituato a vedere spesso oggetti da collezione importanti. Aston Martin Lagonda, Maserati Quattroporte 4900 e Monteverdi 375/4, ammiraglie formato famiglia, certo, ma realizzate con un gusto e una cura tipicamente europei e che hanno avuto una sola “colpa”: quella di nascere dopo gli influssi negativi postbellici del conflitto dello Yom Kippur. Una guerra breve (6-22 ottobre 1973), ma destinata a segnare indelebilmente l’economia dei Paesi europei fino ai primi anni Ottanta.
Una paralisi annunciata. Il progetto iniziale dei dirigenti della Casa inglese, di Alejandro De Tomaso, fresco proprietario della Maserati e del vulcanico Peter Monteverdi, negli anni Settanta, fu lo stesso: affiancare alla produzione delle rispettive granturismo anche una berlina a 4 porte che conservasse comunque gli stilemi tipici dei rispettivi marchi, dalle prestazioni al lusso, dall’esclusività alla cura nella costruzione. Tutto studiato nei minimi particolari: ma la guerra del Kippur e la conseguente crisi petrolifera contribuì̀ alla paralisi della Comunità̀ Europea, che non riuscì, durante gli anni successivi al conflitto, a predisporre un comune piano economico volto alla ripresa dei mercati degli Stati membri. Diversamente, i singoli Paesi comunitari reagirono isolati, ricorrendo all’aumento degli investimenti e praticando una politica anti-deflazionista, o incidendo sulla spesa pubblica, con la conseguenza inevitabile di aumentare il deficit nazionale. Fu questo il quadro drammatico in cui furono costretti a muoversi anche i costruttori di auto, forzati in alcuni casi a dilatare di diversi anni (come nel caso di queste berline d’alto bordo) lo sviluppo dal prototipo alla produzione.
La generazione digitale. Noncuranti di crisi o costi di progettazione, dalla parte della “perfida Albione” non si lesinò neanche un penny per creare quel complicato capolavoro di tecnologia battezzato Lagonda, storico marchio acquisito dalla Casa di Newport Pagnell nel 1947. Disegnata da William Towns, la berlina dell’Aston Martin è in realtà tutto tranne che una trasposizione del concetto di granturismo in auto da famiglia. A partire proprio dalla linea, molto squadrata, con fiancate diritte e paraurti inglobati nelle estremità dei parafanghi, il tutto in alluminio. Il debutto ufficiale avvenne il 12 ottobre del 1976: a stupire non fu però la sua linea, quanto la straordinaria modernità dell’interno (sempre rifinito con materiali di lusso, come la pelle Connolly e la radica di noce) e la sofisticatezza tecnica: basta sfiorare i tasti montati accanto al volante e dotati di sensori, soluzione adottata per l’impianto stereo, l’eventuale televisore, le leve della climatizzazione e tutti gli altri comandi. La strumentazione dispone di indicazioni a led e di un grande monitor.
Unico esemplare in Italia. Volante monorazza (guai ad afferrarlo con piglio deciso, potrebbe piegarsi…), autoradio che spunta dalla parte inferiore della console centrale quasi fosse un cartello stradale del fumettista Jacovitti… insomma, il massimo della stranezza. “Però è piacevole, sia chiaro, – dice sorridendo l’avvocato Angelo Raffaele Pelillo, orgoglioso proprietario dell’unico esemplare censito in Italia, quello che compare in queste pagine – ma per guidarla devi prendere una patente speciale. Perché, diciamo così, è intuitiva, ma molto impegnativa da gestire. A partire dal carburante (che l’8 cilindri ingurgita a dismisura, ndr) e dal suo indicatore, che poi indicatore non è, visto che segnala la percentuale nel serbatoio, con cifre più ballerine dell’intero corpo di danza della Scala”.
Solo 645 in due serie. Il ritrovamento di questo esemplare, telaio 13078, una decina di anni fa, merita un racconto a sé: “Dopo una veloce ricerca in rete, ne ho scovata una nelle campagne dell’Oxfordshire. Biglietto di sola andata per Londra; a Stanstead ho trovato un emissario del venditore, preceduto più che dalla lunga sciarpa che indossava, in stile Doctor Who, da un deciso profumo di whisky. Alla fine, arrivo nel garage dove mi aspetta la Lagonda, che parte a quattro, poi cinque e infine a otto cilindri. Il viaggio di ritorno l’ho fatto su strada tra mille imprevisti, ma alla fine sono tornato sano e salvo in Abruzzo”.
Cerchi tailor made. Qualche anno fa la carrozzeria e la meccanica sono state oggetto di uno scrupoloso restauro. I cerchi in lega, che hanno una vaga foggia d’antan, sono in realtà un’espressa richiesta del primo proprietario dell’auto al momento della sua ordinazione, e in effetti non hanno eguali tra le altre Lagonda costruite. A Newport Pagnell si impiegavano ben 2200 ore per ultimarne una, a un prezzo di listino pari a circa 65 milioni delle vecchie lire; una Rolls-Royce Silver Shadow ne costava 20 in meno. La produzione in totale, due serie fino alla fine del 1989, si è concretizzata in 645 esemplari.
Tridente alla riscossa. Nella seconda metà degli anni Settanta in viale Ciro Menotti, a Modena, storica sede della Maserati, gli impiegati e gli operai pasteggiano ogni giorno con Lambrusco di Sorbara offerto dal vulcanico nuovo proprietario, don Alejandro De Tomaso. I tempi bui della cassa integrazione e della dirigenza Citroën sono per fortuna ormai un ricordo. Dal suo ufficiale insediamento, avvenuto l’8 agosto del 1975, l’imprenditore argentino (ed ex pilota Maserati), oltre a risistemare il bilancio societario, decide di calare due assi per il rilancio del Tridente: la Kyalami disegnata da Frua e la terza generazione della Quattroporte, firmata da Giugiaro. Entrambe vengono equipaggiate con l’8 cilindri degno erede del formidabile motore della 450 S della fine degli anni Cinquanta. La Kyalami non riscuoterà grande successo, ma la sontuosa berlina invece sì, anche grazie a un testimonial d’eccezione, il presidente della Repubblica Sandro Pertini, che a cavallo delle due guerre aveva avuto la possibilità di conoscere i fratelli Maserati.
La “Calliope” del Quirinale. Grande ammiratore del Tridente, nelle sue uscite ufficiali Pertini scelse spesso “Calliope”, così come era stata battezzata la Quattroporte in servizio al Quirinale dagli inizi degli anni Ottanta. Anche in questo caso il “cahier des charges” di De Tomaso al reparto progettazione era stato chiaro: bisogna battere la concorrenza, nessuna concessione a materiali economici e scadenti. Il rilsultato lo si può verificare nell’esemplare telaio 5672, con motore di 4,9 litri (c’era anche il 4200), ancora in splendide condizioni originali, che compare in queste pagine.
Il suo attuale proprietario, Giulio Barbieri di Piacenza, è un grande appassionato del marchio e da anni gestisce un’officina specializzata nel restauro di Ferrari e Maserati. “Unica concessione all’aftermarket è il volante Nardi. Per il resto quest’auto è stata conservata in ottimo stato dal precedente proprietario per anni, poi è arrivata nella nostra officina una ventina di anni fa e abbiamo deciso di tenerla. Da allora, manutenzione ordinaria e nulla più”. L’interno è molto sfarzoso e su questa vettura si può apprezzare la qualità dei materiali che vennero selezionati al tempo: a 41 anni suonati, mostra una pelle Connolly ancora fresca e profumata, senza scoloriture. Certo, a guardarla oggi appare forse troppo squadrata, ma rispetto alle concorrenti non è imponente, anzi. Si diceva del buon successo commerciale, che si è concretizzato in 2155 unità costruite fino al 1990, per un prezzo di listino iniziale di poco più di 39 milioni di lire.
Uno svizzero sanguigno. Prima pilota, poi costruttore e infine team manager in Formula 1: Peter Monteverdi (nato nel 1934 a Binningen, nel Cantone di Basilea, ma con un nonno nativo di Cremona) ha vissuto una straordinaria avventura, che lo ha portato a realizzare splendide vetture, capaci di contendere clienti alle Case più blasonate. Per anni è stato l’alfiere dell’automobilismo rossocrociato, poi nel 1982 la decisione di smettere con le auto fino al 1990, quando tentò il rientro in grande stile acquistando la Onyx di Formula 1, avventura purtroppo finita in bancarotta poco tempo dopo. Quando Monteverdi presenta al Salone dell’auto di Ginevra del 1971 la 375/4 (disegnata in collaborazione con Frua e realizzata dalla Fissore) è già un affermato costruttore di GT. Dopo un apprendistato alla Saurer, aveva rilevato nel 1956 l’officina del padre e si era specializzato nella costruzione di “special” da competizione.
Apprezzato anche da Enzo Ferrari. Persino Enzo Ferrari si era appassionato alle creazioni del giovane svizzero, tanto da affidargli per 11 anni la rappresentanza delle sue auto. Nel 1968 debutta al Salone di Francoforte la sua prima GT, la 375 S. Tre anni dopo, appunto, la versione a quattro porte. È lui stesso, in un’affollata conferenza stampa, a elencare gli optional disponibili, per far capire con esattezza la fascia di mercato dove la sontuosa berlina doveva essere collocata: vetro di separazione tra i posti anteriori e posteriori, mobile bar, interfono, doppio condizionatore d’aria, cambio automatico e impianto frenante a doppio circuito. Soprattutto nel caso di Monteverdi, la guerra del Kippur creò devastanti effetti, perché il già esiguo mercato potenziale andò ad azzerarsi nel giro di un paio di anni, creando seri problemi di sopravvivenza alla piccola struttura di Binningen.
Una manciata di esemplari. Rarità assoluta, una delle probabili 18 vetture (non ci sono dati certi) allestite compare in queste pagine. Si tratta del telaio 3118, ultimato nel 1977, ordinato dalla famiglia reale del Qatar, ottimo cliente visto che ne commissionò altri sette al costruttore svizzero. L’elenco degli accessori montati in origine è copioso: servosterzo, vetri azzurrati, chiusura centralizzata, radio con mangianastri, televisore, appoggiatesta, aria condizionata. Per quanto riguarda la meccanica, la 375/4 adotta il V8 Chrysler di 7,2 litri, accoppiato con un cambio automatico a 3 rapporti, che contraddistingue tutta l’esigua produzione. Dalla famiglia reale del Qatar la 375/4 passò a un ingegnere scozzese, Allan Laird, per poi essere acquistata di recente da Simon Kidston. Totalmente restaurata dallo specialista David Grant di Santa Clarita, California, oggi si presenta in spettacolari condizioni. Così com’è un’esperienza assolutamente unica entrare a bordo e accomodarsi sui sedili posteriori: al centro c’è una console con televisore, autoradio dedicata (per i passeggeri davanti ce n’è un’altra) e impianto di aria condizionata; nemmeno un Cessna Aquila d’Oro offre un confort del genere: da rimanere a bocca aperta. Non è dato sapere quanto fosse il prezzo di listino, ma si può tranquillamente quantificare in oltre 70 milioni di lire a metà degli anni Settanta.