Automobili nella tempesta: 007 Missione X1/9 - Ruoteclassiche
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07/09/2020 | di Giosuè Boetto Cohen
Automobili nella tempesta: 007 Missione X1/9
In questo appuntamento con "Automobili nella tempesta", i retroscena sulla De Tomaso 1600 Spider, copia "d'autore" della Fiat X1/9 di Bertone.
07/09/2020 | di Giosuè Boetto Cohen

La tempesta di questa settimana (in settembre è cominciata, nel frattempo, la stagione degli uragani) è ricordata dai collezionisti e qualche esperto. Non solo perché a distanza di mezzo secolo sono pochi gli addetti ai lavori che possono dire “io c’ero”. Ma perché fu una spy-story, nata in un momento di follia, esplosa come una bomba e poi subita messa a tacere. La protagonista è la “falsa” X1/9 rubata con destrezza da Alejandro De Tomaso alla Bertone per il Salone di Torino del 1971. Un colpo degno della Spectre.

“Sono a Grugliasco “soffiò la voce di uno strano De Tomaso “vieni qui ora, ti aspetto.” “Grugliasco, dove, dottore? – chiese Tjaarda, stupito ma non troppo.
“Ma dove?!” il bisbiglìo si faceva nervoso “da quello che ci fa i parafanghi! Come si chiama...” “Avrei da finire altre cose...”
“Ferma tutto! Dobbiamo fare un’auto. Per il Salone. Subito!”
La conversazione era in pillole, tre frasi, due monosillabi. Come sempre con Alejandro il terribile, persino nei periodi di massimo amore.

“Lo vedi quel mascherone di legno nell’angolo?” chiese De Tomaso quando, dopo mezz’ora, vide entrare Tom, indicando l’altro lato del capannone.
“Mi sembra... quella Fiat che stanno facendo con Bertone.”
“Copiala!” ruggì De Tomaso, gettandogli una mezza occhiata per vedere come reagiva. E se ne andò voltandogli le spalle.
Copiare?! Tjaarda, sperava di non aver capito. Ci si spettava che lui tirasse fuori un block-notes e si mettesse a schizzare quel modello segreto. Lì, davanti al padrone del capannone, che senza molta abilità avrebbe dovuto difendere il progetto da occhi indiscreti. Ma poi, perché copiare? Un oggetto indifeso, frutto di idee, di fatica e di chissà quant’altro.

Notò che De Tomaso era andato incontro al titolare dell’officina e aveva iniziato una discussione animata, forse sui prezzi delle forniture. Ebbe l’impressione che anche questo facesse parte del piano, per distrarlo e consentire a lui di commettere il crimine. E mentalmente, perché non aveva né carta né penna, lo commise.

Dalle parole ai fatti. Nelle poche ore che gli servirono per buttare su carta le quattro viste in scala ridotta, prevalse un atteggiamento da buon soldato, che esegue gli ordini, ancorché ingiusti, perché un superiore glielo ordina. E i fogli segreti sparirono in un cassetto in attesa degli eventi. Un po’ di tempo trascorse senza che nessuno venisse a reclamarli. Tjaarda partì per le ferie: tre settimane un po’ selvagge sull’isola di Mykonos, insieme a un compagno di università ritrovato per caso in Europa. Poi tornò a Torino e...scoprì che i disegni erano spariti. De Tomaso, rientrato prima di lui, era a volato a Detroit, portandosi dietro alcuni progetti tra cui quelli. E dopo il viaggio lampo, aveva gettato sul tavolo di Tom i rotoli spiegazzati: bisognava passare alla fase esecutiva, con il piano di forma e il modello in legno eseguito fuori dallo stabilimento.

Si avvicina la bufera. A questo punto alla Ghia si mormorava. E non solo alla Ghia. Artigiani, figurinisti, battilastra, impiegati comuni avevano sentito dire che il “dottore” stava per portare al Salone una show-car uguale a un’altra già fatta. Una Fiat pronta a entrare in produzione. La storia era talmente grossa, paradossale, senza precedenti, che quasi tutti pensavano a una montatura. Tjaarda decise di parlarne con un amico avvocato. Temeva per la sua reputazione, che negli ultimi anni era cresciuta. Immaginarono insieme vari scenari, pensarono perfino di far arrivare, attraverso un ex-dipendente, una voce a Bertone.

Batticuore. In questo mare di incertezza – sulle ragioni, le trame, il metodo, il fine, persino le regole – il designer assunse un atteggiamento fatalista, convinto che la partita si giocasse altrove e che per lui, in fondo, nulla sarebbe cambiato. Così, sforzandosi di fare lo spettatore, ma con un battito cardiaco accelerato, guardò la “De Tomaso 1600 spider” - in realtà il clone del bel ”targa”disegnato da Marcello Gandini, mentre veniva spinta all’interno del salone di Torino del 1971. Proprio al centro del padiglione dei carrozzieri, tra i riflettori dello stand Ghia.

Il vecchio Blane. Sotto la volta di Torino Esposizioni regnava il putiferio della vigilia. Non furono quindi quelli della Bertone, che pure distavano pochi metri dallo stand Ghia, i primi ad accorgersi dell’intruso. Fu un giornalista inglese, Douglas Blane di Car Magazine, che Tom Tjaarda conosceva bene. Il canuto Blane, onnisciente e molto rispettato, veniva verso di lui ridendo da solo.
“Beh, questa volta siete proprio fuori di zucca. Sarà un casino mai visto!”
“Speriamo…”
“Ma come diavolo avete fatto a vederla?”
“Che posso dirti? Siamo entrati nel capannone ed era lì”.
“Vabbé, vedo che è meglio aspettare gli eventi... Andiamo a colazione insieme?” concluse Blane, che aveva già tutta la storia in testa.

Aplomb sabaudo. Tjaarda ebbe così alcune ore per assistere, da lontano, alle reazioni di Bertone (che impallidì in modo impressionante, ma mantenne il contegno) e soprattutto dei collaboratori (mancava però Gandini) che lo accompagnavano in quel momento. Volarono schiamazzi, qualche parola grossa, la gente nel padiglione si girò a guardare. Ma contrariamente alle previsioni la piazzata si assopì in fretta e Nuccio si ritirò nel privé, per cercar di capire cosa fosse andato storto. Sulle pedane davanti allo stand, le sagome sensazionali del Countach e della Stratos, entrambe appena nate, non lasciavano dubbi su chi fosse il più grande carrozziere italiano, in quel momento.

Lo scandalo torinese. La settimana dopo, mentre la stampa nazionale evitava di schierarsi (un po’ perché conosceva De Tomaso, molto per non dispiacere alla Fiat) dall’estero piovvero paginoni sullo scandalo di Torino. Iacocca ne fu annoiato e chiese alla Ghia di fare qualcosa. Difficile sapere che cosa. Per ultimo usci l’articolo di Blane con l’ ”intervista “ a Tom Tjarda, lo sfortunato designer americano che – gli confidava - “avrebbe perso il posto” se si fosse rifiutato di eseguire gli ordini.

Foto su gentile concessione di Franco Varisto

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