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Automobili nella tempesta: i cinquant’anni della 127 e la meteora di Pio Manzù

Nell’estate di cinquanta anni fa la copertina di Quattroruote anticipava al mondo la Fiat 127, che sarebbe arrivata al pubblico nell’aprile del ’71.  Un’auto di svolta, certamente rispetto alla 850 che mandava in pensione, ma per la Fiat stessa: con la 128 aveva inaugurato l’era delle “tutto avanti”, con la 127 divenne auto dell’anno in Europa e vendette cinque milioni di esemplari. Ma anche su questa storia, apparentemente così ben avviata, era scoppiata una tremenda tempesta.

Il fortunale di fine estate che scroscia questa settimana è di quelli che irrompono di colpo, con troppo anticipo, quelli per cui ci si chiede «cosa sarebbe successo se…». Lo rievochiamo perché si portò via un giovane uomo, intelligente e capace di guardar lontano, un progettista che pur avendo avuto in sorte solo cinque anni di carriera, ci ha lasciato una delle automobili italiane di maggior successo. E poi prototipi e progetti per quelle che guidiamo ancora, tanti anni  dopo e una manciata di pezzi d’arredamento che sono entrati nei musei. È la tempesta che falciò la parabola di Pio Manzù (al secolo Pio Manzoni, 1939-1969), designer visionario e concretissimo al tempo stesso, precursore dei temi della sostenibilità, in anni in cui tutto sembrava ancora sostenibile. A lui, padre della Fiat 127 che oggi sta per compiere mezzo secolo, dell’orologio “Cronotime” di Alessi, della lampada “Parentesi” di Flos (inventata con Achille Castiglioni) e di un’altra piccola ma stupefacente galleria di oggetti, è intitolata una fondazione: Fondazione Manzoni. Seguitene le iniziative: la presiedono i due figli, Giacomo e Francesca, che erano bambini quando il babbo morì sull’autostrada Torino-Milano, forse per un colpo di sonno.

Figlio d’arte. Manzù non veniva da una storia qualsiasi. Il padre Giacomo è stato uno dei maggiori scultori del ‘900. I suoi Cardinali seduti, le Porte Sante, le Madri con bambino hanno fatto scuola. A questa Pio aggiunse l’apprendistato in una mecca del design mondiale, la Scuola di Ulm diretta allora da Tomàs Maldonado. E proprio in Germania, un anno dopo la laurea, Manzù diede vita al gruppo progettuale Autonova: con Fritz Bob Busch e Michael Conrad progettò per il salone di Francoforte del 1965, una piccola sportiva dalla linea a cuneo e soprattutto la eccezionale «Fam» , la capostipite delle monovolume.

Compatta e innovativa. La meccanica della vettura era fornita dalla NSU (1.3 litri, 60 CV, trasmissione automatica, ben 140 km/h.) Ma concorsero al progetto Glas, Recaro, VDO. La vettura era un manifesto al funzionalismo, abitacolo alto, linea a spigolo, padiglione luminosissimo e leggero, doppio portellone posteriore, sedili avvolgibili. Il tutto in tre metri e cinquanta: meno di un Maggiolino. La Autonova FAM non vide mai la produzione, forse perché era in clamoroso anticipo sui tempi, sicuramente perché la NSU era lanciata (e sarebbe naufragata) nel progetto RO80, un’altra auto leggendaria, nata nel momento sbagliato. Di sicuro la visione creativa e razionalista di Manzù, il suo guardare all’auto come a un oggetto quotidiano che deve anche convivere con lo spazio che lo circonda – non passò inosservato.

Una permanenza breve, ma intensa. Alla Piaggio, poi alla Fiat se ne cercò la collaborazione (proprio Giacosa fu uno dei sostenitori) e anche se qualcuno lo guardava con sospetto, le commesse arrivarono. La 127 fu il frutto migliore di quella breve stagione, perché la piccola sportiva G31 – che Manzù aveva appena disegnato per l’Autobianchi – fu giudicata troppo ardita e non vide la luce. Ricorda Dante Giacosa, nelle sue memorie: “Pio, che aveva la passione per le vetture fatte per la gente, semplici, senza pretese di lusso, utilitarie, si dedicò alla 127 con grande impegno ed entusiasmo. I suoi disegni erano di estrema semplicità, esaltata fino al limite consentito della comunicazione dell’idea. I “figurini” subivano un processo di progressivo delicato affinamento che sembrava voler dare l’impressione di una genuinità raffinata, sofisticata, intellettuale.”Insieme a suoi collaboratori e modellisti, Manzù costruì un modello di gesso, che rendeva perfettamente l’idea della vettura. La realizzazione era delle più accurate e teneva conto al millimetro delle dimensioni della meccanica che gli erano state passate. Lo faceva con tale fedeltà che il cofano motore risultò un po’ troppo alto, particolare in seguito rimesso in discussione e corretto da Mario Boano.

Quel giorno fatidico. La maquette comunque convinceva tutti e si decise di presentarla al comitato di presidenza.“La cerimonia che Pio attendeva con ansia ed emozione – ricorda ancora Giacosa – era fissata per le ore 8 di lunedì, il 26 maggio 1969. Ma Pio non venne. In quello stesso mattino ci fu comunicata la tremenda notizia della sua morte sull’autostrada fra Milano e Torino. Era stato a Roma a trovare suo padre. Al ritorno aveva fatto sosta a Bergamo nell’accogliente casa paterna, alta sulla collina, circondata dal verde, e là aveva passato la notte. Nel primo mattino aveva ripreso il viaggio con la sua 500 per raggiungere il Centro stile all’ora stabilita. Fu colpito da un malessere o dal sonno, oppure, come qualcuno suppose, volle manovrare il tetto apribile mentre era in marcia e perse il controllo del veicolo. Fu trovato senza vita nella piccola vettura sconvolta, fuori strada.”

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