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Giotto è di là

Un giorno mio padre mi dice “domani andiamo a Livorno a mangiare il salame”. Del viaggio poi mi ricordo poco, intendo del tragitto; qualche curva presa allegra, ecco quella sì, e poi giusto un accenno al fatto che prima dovevamo fermarci a casa di un suo amico. Era il 1988, avevo 14 anni e in testa due chiodi fissi, le moto. E le moto. Tutto il resto era noia o, come ho scoperto dopo, solo ignoranza. Quando arriviamo c’è quel cielo che solo la Toscana ha, quando fa caldo. La casa è una roba strana, sulle colline, in fondo a una strada sterrata, a metà tra il cantiere e la cascina. In giro, non so perché, mi aspetto pile di mattoni, cumuli di calcinacci, cose da lavori in corso insomma. Invece ci sono solo stampi, gessi, legni. E gran teli di plastica che svolazzano. “La bottega di un artista”, ecco la prima cosa che ho pensato. E la seconda è stata “ma che strano posto”.

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Modellino futuribile. Ad accoglierci c’erano un cane, bianco e nero, poi una signora con un grembiule blu. A fiorellini chiari. Che anche questa sia un’amica di papà lo capisco dal sorriso che sfugge a entrambi. E dalle parole che si dicono, frasi che sembrano riprese da discorsi di poco prima. E invece erano anni: “Giotto è di là”, dice lei, con quella ‘g’ che si scioglie così solo nella bocca dei toscani. Giotto, che per me diventa Bizzarrini solo molti anni dopo, era veramente di là. Ma non in casa, fuori. Davanti a un modellino di un prototipo, una roba futuribile a forma di uovo, appoggiato su una cassa di vini, con dietro una siepe e intorno una gran polvere. Oggi che sono un fotografo, so che quello era un set perfetto per un ritratto. Maglietta rossa compresa.

A parlar di moto. Non so cosa si siano detti, papà e il suo amico. Ma so quello che ci siamo detti noi. Abbiamo parlato soprattutto di moto, ma anche di inglesi. Sì degli inglesi in generale. La verità è che, immaginando che quel Giotto a cui ero stato presentato come uno che “vive di pane e pistoni” qualcosa di motori doveva pur capirne, chiesi perché le moto riuscivano ad avere tutti quei cavalli con cilindrate così piccole. E le macchine no. “Ma possibile che gli ingegneri delle auto non siano capaci di fare la stessa cosa?”. Giuro, ho chiesto proprio così.

No, gli inglesi no. Il toscanaccio che c’era in lui sorrise, e il sorriso di quegli occhi lo ricordo ancora. E poi mi diede una risposta di buon senso ingegneristico. Abbastanza credibile alle orecchie di un ragazzino, ma decisamente incomprensibile per quelle di un quattordicenne. Poi, non so perché, ma il discorso finisce sugli inglesi, le loro macchine, le loro moto. E qui negli occhi ho visto un lampo: un bagliore che ha preceduto una tempesta. Di parole. Per non dire improperi. Un vernacolo di maledizioni contro gli abitanti della Perfida Albione chiuso da una puntualizzazione, per lui molto amara: “…e come se non bastasse hanno pure vinto la guerra”.

La previsione. Si parlò anche di qualcos’altro e a un certo punto comparì anche il famoso salame. Ma è quando tornò sui motori, che mi gelò il sangue nelle vene: “Vedrai che tra vent’anni l’auto sarà morta”. Mi disse proprio così. Non c’era tristezza, rammarico, niente. Era una constatazione amichevole, non una previsione funesta. Io in quelle parole ho visto un baratro, lui una logica evoluzione. Peccato che ne parlò alla persona sbagliata, però. Perché se lo diceva a qualcun altro magari la notizia si sarebbe sparsa prima. E non si sarebbe caduti tutti giù per terra a questo modo.

Uno scatto. Di quel giorno non ho solo i ricordi. Ho anche una foto, avevo, anzi. Non so chi la scattò: io, mio padre, il fotografo che era lì… E ogni volta che mi capitava sotto mano mi ricordava il Giotto che c’era in Bizzarrini. Ma purtroppo è già un po’ che non la rivedo più…

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