Torino, Castello del Valentino, ore 9. Il Gran Premio non è più una corsa di velocità ma l’atmosfera e quella dei box, con meccanici, piloti e tante belle macchine. La “D50” della Collezione Lancia è la regina, gli occhi sono tutti per lei. Raffaele Terlizzi ripete per l’ennesima volta i pochi gesti necessari per avviarla: fa girare un po’ il motore senza candele, per mettere in pressione lubrificante e carburante. “Trenta chili d’olio”, spiega, “hanno bisogno di girare un po’ per essere pronti a fare il loro lavoro quando il motore sarà in moto”. Poi lo avvia e parte per fare da apripista, lasciando tutti noi a sognare di poterla guidare un giorno o l’altro. Intorno a quella che sarà la mia macchina per una mezz’ora, la “Fulvia HF” numero 14 ex Munari-Mannucci, quella che ha ancora sul parafango posteriore i segni di una scodata al Rally di Monte-Carlo del 1972, una ventina di stupende vetture da rally e da pista dagli anni Cinquanta a oggi.
Le collezioni storiche del gruppo FCA schierano, oltre alla mia “Fulvia”, un’Alfa Romeo “1750 GTAm”, una Lancia “Stratos” gruppo 4 in livrea Alitalia, una rara Fiat “124 Abarth” con motore a 16 valvole, una “131 Abarth” sempre nei colori Alitalia. Intorno, Lamborghini, Maserati e Porsche attuali e qualche vecchia gloria dei rally come la Toyota “Celica” ex Carlos Sainz. Ci avviamo tutti insieme, a pochi metri da dove Alberto Ascari partì per l’ultimo Gran Premio nel 1955. Davanti al Castello del Valentino la bandiera sventola ogni trenta secondi, per distanziarci quel poco che basta a dare un po’ di spettacolo in accelerata su corso Massimo d’Azeglio. Una piccola chicane poi tiro la prima (cortissima) fino a 7000 giri e rapidamente innesto le altre marce; la svolta in corso Vittorio Emanuele è a 90°, secca. Per fortuna ho provato prima i freni, così la affronto in tutta sicurezza; pietre, pavé e rotaie del tram sollecitano gli ammortizzatori, durissimi, e mi costringono a qualche correzione sul lastricato di via Roma mentre lo sterzo molto diretto e l’urlo del motore mi fanno sentire pilota per un giorno mentre guido su strade che una volta mi erano molto familiari, che percorrevo con delle Lancia meno cattive ma della stessa epoca, come la “2000” berlina e la “Flavia coupé” seconda serie. Certo una così leggera e potente (i cavalli sono poco oltre 160, in questa versione elaborata) non l’avevo mai provata.
In piazza San Carlo ci giriamo, per ripercorrere le stesse vie al contrario. Ci fermiamo qualche minuto, ma rimango al posto guida per tenere allegro il motore: al minimo, mi ha spiegato Terlizzi, imbratterei le candele. E allora ogni tanto accelero, con una manovra che mi sembra innaturale ma che tutti fanno, dalla Lamborghini “Gallardo LP 570” di fianco a me alla “Stratos” che ho davanti. Viaggiamo più ravvicinati che all’andata, comincia a piovere e il pubblico ai lati si fa più numeroso, così non sfrutto quel pochissimo che ho imparato su quella che è la “Fulvia” per antonomasia e affronto le curve a una velocità che non richiede controsterzo. Rientro ai box non senza cercare un po’ la retromarcia nella manovra finale (all’inizio non capisco se va semplicemente cercata in alto a sinistra come sulla prima “2000” berlina che ho guidato o serve vincere la resistenza di una molla come sulla seconda) e poi con una semplicissima manovra la metto a meno di cinque centimetri da dov’era in partenza. Già: in famiglia, dove mia mamma ha guidato una “Fulvia coupé” dal 1972 al 1980, me l’hanno sempre detto: “Non c’è nessun’altra macchina che in manovra ti dà l’esatta sensazione di dove inizia e dove finisce”.
Massimo Condolo