Le auto che hanno fatto la guerra - Ruoteclassiche
Cerca
Best in classic
24/02/2023 | di Lorenzo Stocco Gastaldi
Le auto che hanno fatto la guerra
A un anno dall'invasione russa in Ucraina, un excursus sui mezzi pensati per scopi bellici e poi diventati poi veicoli di massa
24/02/2023 | di Lorenzo Stocco Gastaldi

Un anno fa, il 24 febbraio 2022, gli uomini e i mezzi corazzati dell’esercito russo invadevano l’Ucraina riportando, per la prima volta dal 2001, uno scontro armato in Europa, alle porte di casa nostra

Le immagini sono rimaste impresse nella mente di tutti. Le abbiamo viste in televisione, sui siti di tutto il mondo e sui quotidiani: carri armati T-72, T-80, T-90 della Federazione Russa, camionette GAZ Tigr e promessi invii di Leopard 2. Elicotteri Mil Mi-24, presenti in entrambi gli schieramenti. E ancora caccia Sukhoi Su-27 Flanker, Mig 29 Fulcrum, aerei da attacco al suolo Sukhoi Su-25 Frogfoot e incrociatori lanciamissili classe Slava come il Moskva, affondato il 14 aprile 2022 nel Mar Nero da missili da crociera antinave.

Meccanica di guerra. La meccanica ha indiscutibilmente un grande impatto sulla guerra e, dall’invenzione dei motori, i veicoli sono presenti anche sui campi di battaglia. Molti concetti sviluppati a scopi bellici hanno trovato applicazione in auto divenute poi vetture di massa. Ecco alcuni dei progetti nati sotto le armi e successivamente entrati nella vita quotidiana.

La Volkswagen Kübelwagen. Il Maggiolino, simbolo di un’era, gli anni 60, il rock’n‘roll, la contestazione e tutto il resto, nella realtà storica ha mosso i primi passi nelle fila della Wehrmacht. E, più in particolare, dei Deutsches Afrika Korps, accompagnando il suo comandante, Erwin Rommel, sui cambi di battaglia africani. La Kübelwagen, o Typ 82, infatti derivava a sua volta dalla Kdf Wagen, l’auto voluta da Adolf Hitler e progettata da Ferdinand Porsche per motorizzare le masse del Terzo Reich. La ricetta era una meccanica semplice, che garantisse un prezzo d’acquisto basso, una produzione standardizzata e un’affidabilità proverbiale. Lo stesso principio che era stato applicato alla Ford T nel 1908: non a caso Henry Ford fu insignito della Gran Croce dell’Ordine dell’Aquila Tedesca per la sua grande intuizione.

La tecnica. Gli ordini per i progettisti erano semplici: velocità di crociera adeguata alle appena inaugurate Autobahn e spazio di carico sufficiente per due contadini con il loro carico di patate o per due soldati con una mitragliatrice. Il corpo vettura, di dimensioni contenute, garantiva quindi un buono spazio per gli occupanti con i relativi bagagli. Una linea semplice era dettata dall’impostazione meccanica di base: motore quattro cilindri boxer posteriore a sbalzo con scatola del cambio davanti all’asse posteriore, telaio a trave e carrozzeria imbullonata. Una peculiarità? Il fondo piatto e chiuso, che consentiva all’auto di galleggiare. Lo scoppio della guerra indusse la neonata Volkswagen a una riconversione della produzione a scopo bellico. Al termine del conflitto, però, lo stabilimento di Wolfsburg era andato distrutto sotto i bombardamenti alleati. Si deve al maggiore inglese Ivan Hirst l’idea di far riprendere la produzione Volkswagen, inizialmente di mezzi destinati alle forze di occupazione anglo-americane. In breve tempo però, intuito il potenziale mercato, venne la grande produzione e già il 14 ottobre del 1946 si festeggiava l’esemplare numero 10 mila.

La diatriba sul progettista. L’epopea del modello continuò fino al 2003, quando l’ultimo esemplare uscì dalle linee di montaggio dello stabilimento di Puebla City in Messico. A dirla tutta, la paternità della simpatica “tutto dietro” è discussa ancora oggi, sembra infatti che le somiglianze con la Tatra V570 siano tali da identificare il vero ideatore del progetto nel cecoslovacco Hans Ledwinka. Anche se, proprio per ammissione di quest’ultimo, lui e Porsche si erano spesso copiati a vicenda.

La nascita delle fuoristrada. Di là dell’oceano, nello stesso periodo, il governo degli Stati Uniti indisse un bando per la produzione di un veicolo leggero, con buone doti fuoristradistiche per equipaggiare l’esercito americano. Nel 1940, la Willys, una piccola Casa automobilistica americana, vinse il concorso (dopo una agguerrita selezione), aggiudicandosi la fornitura per le forze armate e coniando un nome famoso ancora oggi: Jeep. Con l’attacco di Pearl Harbour, il 7 dicembre 1941, e l’entrata in guerra degli Usa, però, ci si rese conto della necessità di avere un gran numero di Jeep e di poterne disporre in tempi brevi su tutti i teatri, dal Pacifico all’Europa. Così la piccola fuoristrada venne prodotta su licenza anche dalla Ford, con la sigla GPW. Per capire l’impatto che ebbe al termine delle ostilità, George Patton, il “Generale d’Acciaio”, dirà che la vittoria non sarebbe stata possibile senza la Willys Jeep.

Una configurazione ricorrente. La meccanica, ancora una volta semplice e rodata, era composta da un motore quattro cilindri benzina da 2.2 litri e 60 CV montato longitudinalmente davanti all’abitacolo e di un cambio a tre marce con riduttore. La trazione era posteriore con l’anteriore inseribile, una rudimentale trazione integrale con due differenziali sui due assi. Impossibile da utilizzare come integrale permanente, bisognerà aspettare le Land Rover del dopoguerra per vedere su un fuoristrada il differenziale centrale, necessario per sterzare mantenendo le quattro ruote motrici, ma questa è un’altra storia. L’impostazione della Willys con telaio separato a longheroni e traverse e sospensioni a ponte rigido ha fatto da apripista a una schiera di fuoristrada più o meno ispirate alla vecchia guerriera. Oltre alle Jeep di moderna produzione, infatti, le già citate Land Rover, la Fiat Campagnola, l’Alfa Matta e le più recenti interpretazioni di mezzo mondo ereditano, anche solo concettualmente, le caratteristiche di un veicolo nato più di ottant’anni fa.

COMMENTI
In edicola
Segui la passione
Dicembre 2024
In uscita il 5 dicembre il nuovo numero di Ruoteclassiche
Scopri di più >