Le strade vuote e il mito di “C’était un rendez-vous” - Ruoteclassiche
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16/04/2020 | di Paolo Sormani
Le strade vuote e il mito di “C’était un rendez-vous”
Il canto del V12 Ferrari in una Parigi deserta. Un sogno? No, è Rendez-Vous, il celebre cortometraggio di Claude Lelouch.
16/04/2020 | di Paolo Sormani

Buona la prima, o la va o la spacca. È questo che ha reso il cortometraggio “C’était un rendez-vous” di Claude Lelouch un classico underground per i malati di auto. Suo malgrado attualissimo, in questi giorni di deserto urbano.

Sui social e sulle testate online che li saccheggiano è tutto un sovrapporsi di video delle strade e delle piazze desertificate dalle auto e dagli umani. Chi può uscire si vanta di aver migliorato il record storico casa-lavoro, o il miglior tempo in circonvallazione come neanche a Ferragosto. E qui “Un appuntamento” (è il titolo italiano) di Claude Lelouch torna di inaspettata attualità. Da rivedere una volta di più, perché certe situazioni e certe sequenze capitano una volta nella vita. Per anni, “C’était un rendez-vous” è stato circondato da un’aura di mistero che ha contribuito a costruire il suo mito. Oggi si sa che nacque da un momento di follia del regista francese, più trecento metri di pellicola da 35 mm avanzata dalle riprese di “Chissà se lo farei ancora” con Catherine Deneuve. No, non l’ha più rifatto, per fortuna. Gli otto minuti di piano-sequenza in soggettiva sono passati alla storia perché sono autentici. Flirtano con la velocità, il rischio (poco) calcolato e gli istinti primordiali.

Parigi val bene un grand prix. “Un appuntamento” è la storia, lineare come le Hunaudières, di una persona così innamorata da non sopportare di far attendere troppo una donna. Lei è l’unico personaggio del film e appare solo per pochi secondi, prima di scomparire nell’abbraccio finale. È bionda, svedese, si chiama Gunilla Friden, allora era la fidanzata del regista, beato lui. Gli altri inconsapevoli attori sono i rari pedoni che si ritraggono davanti all’auto sparata come un proiettile, per tagliare in due Parigi alle cinque e mezza di una domenica mattina di agosto. Lelouch montò una cinepresa Eclair Caméflex giro-stabilizzata sul paraurti della Mercedes 450 SEL personale, V8 da sette litri e cambio automatico a tre marce, scelta per comodità e per la stabilità di ripresa offerta delle sospensioni idropneumatiche. Il rumore del V12, lo stridore delle gomme e il nervosismo delle cambiate sono quelli della sua Ferrari 275 GB, sincronizzati con grande precisione. Uniti all’effetto suolo dell’angolazione di ripresa, provocano un effetto combinato magnifico. L’unico trucco ben riuscito di un film senza inganno che non è stato neppure accelerato, come ci si arrangiava ai tempi.

18 semafori rossi. Con l’operatore sul sedile accanto e il rumore del battito cardiaco, Lelouch parte dal tunnel della Périphérique di Porte Dauphine e per dieci chilometri e mezzo non si ferma mai. Neanche per i 18 semafori rossi regolarmente bruciati, per gli autobus, i pochi parigini in giro, i piccioni terrorizzati che schizzano via. Via per l’Arco di Trionfo e i Campi Elisi, piazza della Concordia e l’Opéra fino al Moulin Rouge e la scalinata del Sacro Cuore, una Parigi ridotta a fondale di una cartolina impazzita. Rallentato da un camion delle consegne esita, poi punta il marciapiede per “se démerder”. Lelouch non ha alza il piede neanche all’uscita dell’arco dei giardini di rue di Rivoli, accanto al Louvre. Qui un assistente, l’unica altra persona che conosceva il tracciato, doveva dargli il “via libera” al walkie-talkie, che però non funzionò. Il semaforo dava il verde e fu un miracolo se nessuno si fece male. Anni dopo il regista definì quell’impresa “completamente immorale, una cosa proibita come altre che ho fatto nella mia vita”.

Non era Ickx. Bloccato dalla sua cattiva fama, “C’était un rendez-vous” rimase in un limbo per anni. Le voci e le indiscrezioni si sovrapponevano: guidava Jacques Laffite, no era Jackie Ickx che era amico di Lelouch, sugli Champs Elysées andava a duecento all’ora. "Ero io - dichiarò il regista – mio il film, miei i rischi e la responsabilità. Dopo la proiezione fui convocato dal prefetto. Mi elencò una lista d'infrazioni e mi chiese la patente. La guardò, poi con un sorriso me la restituì. 'Ho garantito che gliel’avrei ritirata, ma non ho specificato per quanto tempo. I miei figli adorano i suoi film’”. C’è molto romanticismo, amour fou e piacere proibito nel corto di Lelouch, pubblicato nel 2003 su DVD grazie all’insistenza del documentarista Richard Symons. Negli anni successivi “C’était un rendez-vous” è stato ancora capace di ispirare moltissime scene, come l’inseguimento a Parigi in “Mission Impossible”, o l’omaggio della banda Clarkson-May-Hammond su Bugatti Chiron attraverso Torino in un episodio di “The Grand Tour”.

Sappiamo cosa state pensando. Per chi ci prendete? Bene, ve lo diciamo una volta sola e una soltanto: non provateci. Neanche per scherzo. Neanche se la zona rossa diventa nera e per strada possono girare solo i gatti randagi. Il bello di “C’était un rendez-vous” è l’unicità di una poesia maledetta ed esilarante. Una storia fantastica, da guardare e riguardare con le casse che gridano pietà. Sarebbe facile imitarla con la Go-Pro e le strade vuote di oggi per postarla ovunque, ma che gusto ci sarebbe? E soprattutto, che figura ci fareste? “Un appuntamento” ci restituisce un momento di follia sana e irripetibile, un ideale platonico di velocità. Godiamocelo, una volta di più, per quello che è.

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