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25/04/2021 | di Redazione Ruoteclassiche
Michele Alboreto: l’ultimo sguardo di Enzo Ferrari
A vent'anni dalla scomparsa di Michele Alboreto, Giorgio Terruzzi traccia un appassionante ricordo di un grande pilota che ci ha lasciati troppo presto.
25/04/2021 | di Redazione Ruoteclassiche

Sono passati vent’anni dalla scomparsa di Michele Alboreto. Basta una sola immagine, una piccola fotografia per ritrovarlo al nostro fianco, sorridente dentro la TV. Lui, sorridente in tuta rossa, l’ultima scelta, l’ultimo sguardo di Enzo Ferrari.

Se n’è andato quando tutti eravamo convinti fosse destinato a rimanere, fuori pericolo. Quasi. Un reduce pronto per una seconda vita più quieta, con dentro le auto, certo, ma anche e finalmente moglie e figlie al centro della scena. Macché. Ultima curva, venti anni fa, 25 aprile 2001, provando un’Audi R8 Sport per la 24 Ore di le Mans al Lausitzring, un nome antipatico di suo.
Fine di Michele Alboreto, milanese classe 1956 (23 dicembre), ex ragazzo dal futuro strepitoso, ex pilota della Ferrari, cinque anni più neri che rossi, dal 1984 all’88, con l’idea, sua, di ciascun appassionato, che fosse proprio lui l’italiano destinato a rivincere il Mondiale di F.1 dopo una attesa lunga più di trent’anni. Stesso luogo di nascita, stessa macchina, stessa iniziale del cognome di Alberto Ascari.

I colori di Michele. Non una semplice speranza: vicecampione nell’85, nell’anno del primo titolo vinto da Alain Prost con una McLaren più tonica della Ferrari soprattutto nel finale di stagione. Fu il risultato migliore dentro una carriera lunghissima. In F.1 il bilancio presenta 215 partecipazioni, 5 vittorie, 23 podi, 2 pole, 5 giri veloci. Con esordio clamorosamente positivo nel 1981 sopra una Tyrrell del vecchio Ken, un uomo dall’occhio lungo, lo scopritore di molti ragazzi in gamba. Con il supporto decisivo del conte Gughi Zanon, un vero mecenate, l’uomo che aveva accompagnato la carriera brillante e sfortunata di Ronnie Peterson. Giallo e blu Svezia sul casco. I colori che Michele adottò con orgoglio e ammirazione nei confronti di quello svedese velocissimo.

Campioni si nasce. Prima vittoria a Las Vegas, 25 settembre 1982, tra hotel, casinò e comparse vestite da centurioni romani. Tre anni con Tyrrell, cinque con Ferrari e poi Tyrrell di nuovo e Larrousse, Arrows, Footwork, Scuderia Italia e Minardi per chiudere con i Grand Prix nel 1994, un anno orribile per chi ama le corse, campioni compresi. Anche perché, proprio lui, come il suo amico Gerhard Berger, al Tamburello di Imola aveva rischiato di morire, prima che su quel muro si schiantasse Ayrton Senna. Era il 1991, una sessione di test, una profonda ferita alla gamba.
C’è un prima e un dopo, importanti entrambi. Alboreto era un giovane perito industriale, pochi soldi e molto talento. Abbastanza per farsi notare con le monoposto minuscole di F.Monza, con quelle più impegnative di F.3, campione europeo 1980; per entrare nella squadra Lancia per le gare Endurance, un rapporto lungo anche questo e gonfio di affermazioni importanti.

Oltre la Formula 1. Alle vetture con ruote coperte tornò una volta uscito dal giro della F.1. DTM con Alfa Romeo, una parentesi in Formula Indy e soprattutto vittoria a Le Mans nel 1997 con una TWR Porsche insieme al suo vecchio partner in Ferrari, Stefan Johansson e a Tom Kristiansen. Passò all’Audi, con meno fortuna. Ultima vittoria: 12 Ore di Sebring 2001.
Alla sua seconda vita aveva cominciato a pensare da un pezzo. Commentatore, opinionista, tester, un ruolo nella Commissione Sportiva Automobilistica Italiana. Viveva a Montecarlo, suonava il basso elettrico, aveva imparato a muoversi come un vero manager. Era pronto, insomma, per invecchiare tra la stima di chi l’aveva visto correre, di chi lo frequentava coinvolgendolo in altre imprese. La sua morte: uno shock controtempo, un dolore agganciato più che mai al rimpianto.

Melancolie. Sono passati vent’anni. Basta una sola immagine, una piccola fotografia per ritrovarlo al nostro fianco, sorridente dentro la TV. Lui, sorridente in tuta rossa, l’ultima scelta, l’ultimo sguardo di Enzo Ferrari. Una doppia immagine gonfia di malinconia, il bisogno di cercare un doppio oblio.

Giorgio Terruzzi

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