Patrick Peter racconta Peter Auto - Ruoteclassiche
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07/05/2023 | di Nicolò Minerbi
Patrick Peter racconta Peter Auto
Il papà della Le Mans Classic racconta: tante cose. Anche il segreto del suo successo. E quel che succederà nel futuro delle auto classiche (soprattutto in pista)
07/05/2023 | di Nicolò Minerbi

L’appuntamento è per le 11, nella sala stampa del Mugello. Non l’ho mai visto prima, Patrick Peter, ma quando arrivo, in anticipo, lui è già lì. E lo riconosco lo stesso. Lo riconosco, dico, non lo individuo. Perché quel maglione buttato sulle spalle, la camicia giusta, la giacca da gentiluomo di campagna, insomma, sono dettagli perfettamente allineati allo stile che hanno tutte le sue manifestazioni.

Ci presentiamo. E allora noto che il dress code di monsieur Peter Auto prevede anche un walkie talkie Motorola, di quelli con la clip per il bavero. Roba da poliziotto americano. La verità è che Patrick vuole sapere sempre tutto.

La chiacchierata comincia col raccontarmi di quando ha iniziato, con quel suo inglese al profumo di francese, soprattutto quando i concetti sono così chiari da poter essere liquidati da una sfilza di “ecceterà ecceterà”. Con l’accento sulla ‘a’. Mi dice che negli anni ‘80 “la gente veniva sui circuiti con le macchine con cui avrebbe corso il giorno dopo. Per questo stavano attenti a non andare a sbattere, perché se no non sapevano come tornare a casa la domenica sera”.

“Al briefing prima della gara dico sempre: ricordatevi che da qui non verrà fuori un nuovo Fangio. Quindi divertitevi, andate forte, ma non fate i funamboli”. Su questo punto è chiarissimo con tutti. “La gente che viene alle mie giornate in pista, i famosi gentleman driver, sono industriali, imprenditori. E se i piloti professionisti sanno bene che con il primo figlio si perde un secondo al giro, i ‘miei’ hanno sperimentato la stessa cosa con la prima presidenza di multinazionali…”. E poi c’è la regola non scritta, che funziona sempre. “Gli incidenti di gara possono succedere, per carità. Ma se è uno che li provoca, allora quello paga anche il 50% dei danni dell’altro. Lo sanno tutti, qui, ma non lo trovi scritto da nessuna parte…”. Siamo pur sempre tra gentleman (driver).

“Come vedo il futuro di queste corse? Infinito. Almeno per me. Le macchine di tutti i giorni sono noiose. Molto noiose. E le strade non sono più posti amichevoli, per uno che vuole andar forte. Ma per fortuna c’è ancora la pista”.

Quindi i circuiti come riserve in cui confinare le auto d’epoca? “Non credo che se uno ha una berlina degli anni ‘50 non potrà più andare in giro, ma i politici sono gente a dir poco imprevedibile, diciamo così. La buona notizia è che l’anno scorso alla Le Mans Classic abbiamo provato le benzine sintetiche sviluppate dalla Aramco. E funzionano bene, nessun problema. Per questo motivo vogliamo che il 50% delle auto in gara quest’anno venga alimentato così”.

A proposito di Le Mans, ormai sono 100 anni. Com’è nata l’idea della Classic? “La domanda giusta è come non è morta. Visto che quando siamo partiti non è venuto quasi nessuno. Non sono nuovo del mestiere, e so che ci vuol tempo perché queste cose ingranino. Se devono ingranare. Di fronte ai paddock vuoti i rimedi sono due: far entrare chiunque o rimanere fermi sul pochi ma buoni. La seconda opzione è quella che vince sempre. E così al decimo anno abbiamo cominciato a guadagnare. Ma prima, solo perdite. Dopo il primo flop per fare il secondo ho dovuto vendere una macchina…”.

E i concorsi d’eleganza? “Non pagano. Almeno in Europa. Villa d’Este funziona perché BMW ci mette tanti soldi. Solo in America è diverso, perché hanno un’altra testa. Per loro vincere a Pebble Beach è come prendere il Nobel o diventare presidenti della repubblica. Una medaglia da sfoggiare in pubblico insomma”.

Più parliamo, più i conti non tornano. Perché Patrick la sa lunga, si vede. Giocare con le macchine lo diverte, ma sento che c’è di più. Che va molto oltre al suono dei motori o alla puzza della benzina. E del business in sé e per sé. Ci arrivo tardi, solo quando mi chiede dove abito e gli rispondo col solito paesello veneto, Asolo. “Asolò!” (accento ovviamente sulla ‘o’) e lo urla come se gli avessi dato l’indirizzo di casa sua. “Quarant’anni fa ero sempre a Asolò! Avevo un amico, Adriano Goldschmied…” (il Godfather of Denim, il padrino del jeans, come lo chiamano negli USA). E finalmente tutto si chiarisce.

Peter viene da un altro pianeta: quello della moda, dell’immagine. Ecco il pensare fuori dagli schemi, i dettagli curati, le maniere eleganti e poi quelle locandine che sono manifesti da prendere e incorniciare in salotto, più che in garage. Oltre che così il suo motto, “conosco i miei clienti”, prende tutto un altro significato: alla fine il suo mondo è ancora quello della pubblicità.

Prima di salutarmi, mi guarda con la faccia di quello che sta per dirla grossa.

Poi scuote la testa e mi fa, “no, non ancora… Tanto so dove trovarti”.

Sedotto e abbandonato, insomma. E così è da allora che non perdo di vista la strada che si inerpica sulla collina della Rocca di Asolò.

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