La storia delle shooting brake nasce molto prima che l’automobile diventasse un oggetto di massa. In Inghilterra, a fine Ottocento, il termine “brake” indicava una tipologia di carro, e quando veniva adattato alla caccia assumeva il nome di “shooting brake”, cioè carrozza per il trasporto di cacciatori, fucili e cani.
Con l’arrivo delle automobili, il concetto fu applicato ai telai di lusso, e già a inizio Novecento alcune Rolls-Royce Silver Ghost vennero trasformate dai carrozzieri per diventare quello che oggi definiremmo Suv. Erano auto aristocratiche, pensate per accompagnare i signori nelle battute di caccia o nei viaggi di piacere. La prima di questo tipo fu la Delahaye 135 Guillore Break de Chasse.
Auto su misura
Dagli anni 50 la shooting brake cominciò a identificare non più un veicolo rustico, ma una coupé sportiva trasformata in una 2 porte con portellone. Alcuni esempi segnarono quell’epoca: celebre la Jaguar XK150 shooting brake di Douglas Hull. Un primo esperimento commerciale fu nel 1961 la Ford Anglia “estate” in variante shooting brake a tre porte, dove però l’aspetto sportivo non faceva parte del progetto. Poco dopo Harold Radford realizzò dodici Aston Martin DB5 shooting brake, commissionate dal patron David Brown e destinate a gentiluomini. Anche Ferrari, non direttamente, costruì una 365 GTB4 shooting brake per volere di Bob Gittleman. Molti progetti però non andarono oltre lo stadio di prototipo. I motivi erano semplici: alti costi di trasformazione, ridotta nicchia di mercato e difficoltà tecniche nell’adattare telai e meccaniche a carrozzerie così particolari. La shooting brake rimase quindi un capriccio per clienti eccentrici, più che un prodotto di massa. Da un punto di vista stilistico, non seguono canoni standard: la coda tronca interrompe la linea sportiva, le superfici vetrate risultano o troppo ridotte, con effetto massiccio, o troppo ampie, con aspetto da familiare. E anche il frontale aggressivo e basso si scontra con una coda alta e funzionale.
I pochi successi
Eppure, negli anni 60 e 70, alcune shooting brake entrarono in produzione. La più importante fu la Reliant Scimitar GTE del 1968: grazie alla scocca di vetroresina, motore V6 Ford, assetto basso e praticità sorprendente fu prodotta in oltre 14 mila esemplari. La Volvo presentò la P1800 ES e con il suo portellone posteriore di cristallo divenne un’icona. Rimase in listino tra il 1972 e il 1973 e ne furono vendute 8.077. L’Italia ebbe la Lancia Beta HPE, in produzione dal 1975 al 1984, che reinterpretò la formula come una gran turismo familiare a tre porte, con oltre 71.257 esemplari costruiti e motorizzazioni brillanti, ma con qualità costruttiva non eccezionale.
Troppi compromessi
La differenza tra una station wagon e una shooting brake è netta. La prima nasce per praticità, con cinque porte, grande bagagliaio; la seconda è una coupé tre porte con portellone, bassa e filante, pensata per il week-end. Non si trattava di soddisfare un bisogno reale, ma di proporre un concetto d’immagine. Proprio questa ambiguità rese difficile la sua diffusione. Le shooting brake hanno troppi compromessi: non sono sportive quanto una coupé, non sono pratiche quanto una station wagon. L’accessibilità a tre porte limita l’uso familiare, e il bagagliaio, pur più ampio rispetto a una coupé, resta insufficiente se confrontato con una station. In più, il prezzo era elevato, perché spesso derivavano da piccole serie o da trasformazioni su misura. È forse l’unico segmento che non è mai riuscito a decollare, ma forse, oggi, le shooting brake potrebbero trovare il loro posto. Pratiche e comode per una persona o per una coppia con cane e basse e veloci da risultare divertenti alla guida. Peccato che a oggi nessuno le produca più.
                            
                
                