Triumph Acclaim, altro che applauso... - Ruoteclassiche
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09/10/2018 | di Marco Visani
Triumph Acclaim, altro che applauso…
Risparmiare non significa guadagnare. Se ne accorsero, e non certo con piacere, gli inglesi della Triumph nei primi Anni 80. In quel tempo, esaurita la linea di modelli progettati in Inghilterra (era rimasta, a esaurimento scorte, solo la TR7, nelle versioni coupé e spider) quello che fu un glorioso marchio dagli Anni 50 ai 70 non aveva né soldi, né modelli, né clienti.
09/10/2018 | di Marco Visani

Risparmiare non significa guadagnare. Se ne accorsero, e non certo con piacere, gli inglesi della Triumph nei primi Anni 80. In quel tempo, esaurita la linea di modelli progettati in Inghilterra (era rimasta, a esaurimento scorte, solo la TR7, nelle versioni coupé e spider) quello che fu un glorioso marchio dagli Anni 50 ai 70 non aveva né soldi, né modelli, né clienti.

Sviluppo in sinergia. L’idea che venne agli uomini del Gruppo British Leyland (il Commonwealth dei marchi britannici) fu allora quella di allearsi con i giapponesi, per condividere i costi di sviluppo. L’idea di base non fa una piega (oltre 30 anni dopo tutto il mondo dell’auto gira in questo modo) ma il modo in cui fu interpretato allora, sì.

Dopo la Dolomite. Era il 1981 quando il vuoto lasciato dalle middle saloon (Dolomite Sprint e derivate) fu frettolosamente riempito dalla Acclaim. Applauso, sarebbe, in inglese; di fatto, nonostante sia una vettura made in England, costruita in una nuova fabbrica, a Cowley, e malgrado la Casa dichiari che è inglese al 50%, di british ha solo il marchietto, i tessuti di rivestimento e la grafica del quadro strumenti. A parte questi dettagli è, infatti, né più né meno la sister car della Honda Ballade, una berlina di classe media nata nel 1980 che ha tutte le caratteristiche delle giapponesi di quegli anni. È progettata bene, realizzata con una certa cura esecutiva ma inesorabilmente priva di personalità.

Economica e ben fatta. Sul nostro mercato viene proposta con un unico motore 1.3 monoalbero a camme in testa da 70 CV in due allestimenti, HL e HLS, il secondo associabile anche con cambio automatico (che in quegli anni, specie su una media, è ancora colpevolmente associato, in Italia, all’idea di disabilità). Ha la trazione anteriore, le cinque marce, le sospensioni indipendenti, alcune raffinatezze allora pressoché sconosciute in Europa come il ricircolo nell’impianto di aerazione e riscaldamento. Costa anche poco: persino la versione più completa, che ha di serie quattro alzacristalli elettrici, due retrovisori esterni a regolazione interna, contagiri e sedile posteriore ribaltabile, costa 8.550.000 lire. Meno della Fiat 131 Mirafiori, ma anche della Ritmo 65 CL come pure della stragrande maggioranza delle compatte e medie di potenza e cilindrata paragonabile, dalla Citroën GSA alla Ford Escort, dalla Opel Ascona alla Renault 18.

Si chiude bottega. Purtroppo le buone qualità generali della vettura non bastano a perdonare un’operazione così smaccata di badge engineering, tantopiù se firmata da un marchio con una tradizione come quella della Triumph. Uscita di produzione prestissimo (nel corso del 1984), e consegnata in Italia in meno di 10 mila unità (delle 134 mila prodotte) la Acclaim ha il poco invidiabile primato di essere stata l’ultima Triumph della storia. Dopo di lei il marchio sarebbe stato dismesso. Doveva essere un applauso: fu un fischio senza possibilità d’appello.

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