La Volvo 480 ES è stata la prima trazione anteriore della casa svedese. Molto originale nel look e nell’organizzazione dello spazio. Monta un tranquillo “millesette” aspirato Renault, che però ha una bella sonorità se stuzzicato. Da nuova ebbe un buon successo e oggi ha ancora numerosi fan.
Non c’è niente di meglio, per superare i traumi infantili, che rivivere una scena da adulti. Quando aveva dieci anni Gianluca Faggioli tentò di convincere il papà (volvista da sempre) a scegliere una 480 come auto di famiglia. “Cosa vuoi capirne tu di macchine?”, fu la sua reazione. Vent’anni dopo – quando nel frattempo l’oggetto dei desideri era così vecchio da valere una cicca, ma non ancora abbastanza per essere qualificato come storico -, si è messo in cerca e ha trovato una Volvo 480 ES con poco più di 110 mila km, automatica e soprattutto targata Bologna, che oltre a essere la sua città è, da sempre, la sede dell’importatore italiano della Volvo.
Chi ha superato gli anta ricorda che le auto provate da Quattroruote erano targate MI, TO, PD, VR o Roma. E poi c’erano le Volvo: le sole con la sigla BO. Ricondizionata di carrozzeria, non più che tagliandata di meccanica, impreziosita con alcuni accessori originali della Casa come il porta Cd nel bracciolo centrale posteriore, questa Volvo 480 ES immatricolata a giugno 1992 fa compagnia da 15 anni nel garage di Gianluca a un’altra youngtimer, ovviamente Volvo (sull’essenziale padre e figlio si sono sempre trovati d’accordo): una C70 Cabriolet del 2003.
La Volvo 480 ES non è solo sexy, con le sue forme ardite e quei fari a scomparsa che quando li vede aprirsi un millennial a momenti gli viene un coccolone. È stata anche, a suo tempo, una rivoluzione: all’anima di chi ha sempre inteso le coupé come delle figlie di secondo letto delle berline, alla Volvo decisero di affidare a una sportiva il passaggio alla trazione anteriore e al motore trasversale. Tardivo, per carità. Ma negli anni 80 la Volvo poteva fare il bello e il cattivo tempo. E con la 480 calò un asso straordinario. L’estetica occhieggiava alla 1800 ES del 1971, ma solo per il lunotto-portellone.
Per il resto, Volvo 480 ES ti lasciava a bocca aperta perché non aveva nulla, ma proprio nulla, a che vedere con le altre auto della marca. Persino la mascherina, sempre pomposa sulle Volvo, era scivolata, sottile e discreta, sotto il paraurti: dovevi quasi inginocchiarti, per scorgere l’“iron mark”. Un pugno nello stomaco di quelli che ti svegliano, e un abitacolo tutto “cocooning” con quattro posti singoli su altrettante poltroncine soffici e spaziose. Oltre a un vano di carico non enorme, però facilmente modulabile, visto che le due sedute posteriori si ripiegano singolarmente. Magari un mobile non ci passa, ma per i pacchi piatti dell’Ikea è perfetta.
Ruote motrici a parte, la meccanica è ordinaria e il suo 1.700 di costruzione Renault non ha pretese: è un monoalbero a due valvole alimentato a iniezione da 109 CV, strutturalmente identico a quello già in uso sulla 360. La Volvo 480 Turbo che seguirà nel 1988 arriverà, al massimo, a 122 CV. Lo stesso vale per il telaio: MacPherson davanti, retrotreno rigido. Poca spesa, tanta resa. E non per modo di dire: sino al 1995 sono stati costruiti, nella fabbrica olandese ex Daf, 76.375 esemplari di Volvo 480.
Da guidare, più che una coupé, la “nostra” Volvo 480 ES è una brillante compatta. Di sportivo ha poco, compresa l’impostazione al volante che, anche a sedile tutto giù (la regolazione è di tipo basculante) privilegia il confort. Volendo, l’abbondanza di spazio permette una guida relativamente allungata, ma mai rasoterra. Rovescio positivo della medaglia: la visibilità, sia in marcia sia in manovra, è esemplare. Il motore ha un’erogazione progressiva e, soprattutto, un bell’allungo, oltre che una sonorità rauca che non ti aspetteresti da un monoalbero senza infamia né lode. Bisogna però andarsela a cercare: si manifesta con una certa evidenza solo dai 3.000 giri in su.
Il cambio automatico a quattro rapporti, vera rarità di questo esemplare di Volvo 480 ES, ha passaggi di marcia abbastanza fluidi, specie nelle due superiori, ma è poco avvezzo a interpretare con la necessaria solerzia le richieste in arrivo dall’acceleratore. Sia nelle partenze rapide sia in kick down manifesta infatti, più ancora che un’inerzia, un vero e proprio punto morto, che strozza le potenzialità del propulsore: quel secondo, secondo e mezzo in cui non succede niente e che è davvero fastidioso. Lo sterzo, servoassistito, è piacevolmente leggero (a volte sin troppo, ma non in misura tale da compromettere la sensibilità), mentre i freni vanno “capiti”: la corsa del pedale è lunga, spugnosa e il mordente così così. Però all’atto pratico, quand’è il momento del panic stop, i quattro dischi fanno bene il loro mestiere, persino senza bloccare (no, l’Abs, qui, non c’è).
L’assetto non lascia spazio a grande flessibilità e privilegia piuttosto la precisione negli inserimenti, che infatti è di grande qualità. Senza essere dura tout court, la Volvo 480 ES deve fare i conti con un retrotreno meno “civilizzato” di quanto ti aspetteresti da una coupé più da casa-scuola-iper che da cordoli. Rimanga tra noi quello che sto per dirvi. Quando avevo 25 anni anch’io ero innamorato perso della 480. Ero lì lì per ordinarla, ma il mio conto corrente si mise di traverso. Mi dovetti accontentare di una Y10 (c’entra niente? Appunto). Anch’io sono di Bologna. Avverto un certo non so che nell’aria. Fatemi controllare gli annunci…