Il nostro biglietto di auguri al campione di Formula 1 tedesco Michael Schumacher, che compie oggi cinquant'anni
Una Rossa che taglia il traguardo, al G.P. del Giappone del 2000. E un pilota che batte freneticamente di gioia le mani sul volante della sua Ferrari F1-2000. Sa bene che cosa ha fatto: ha vinto gara e mondiale. Non solo: in quell’istante, Michael Schumacher – di lui stiamo parlando – entra nella storia delle corse, per aver conquistato il suo terzo titolo Piloti (dopo quelli con la Benetton, nel 1994 e ʹ95), ma soprattutto per aver riportato il mondiale in Italia, a Maranello, 21 anni dopo Jody Scheckter e la sua 312 T4.
Un idolo per i tifosi. Era tanto tempo, e lo dico perché ho vissuto entrambi gli eventi in diretta, che un pilota non riusciva a trasmettere così tanto entusiasmo in tivù. E il pubblico, anche per questo, non ha dimenticato Michael. Neppure oggi che compie 50 anni, un traguardo speciale per chiunque, ma che, per un campionissimo come lui, assume un valore ancora più grande. Infatti, il sette volte iridato di F.1, rimasto vittima di un grave incidente sulle nevi di Méribel (Alpi francesi) il 29 dicembre 2013, conduce da oltre cinque anni una vita quasi “parallela”, al di fuori dei riflettori che lo hanno accompagnato sin dal suo esordio in kart, quand’era ancora bambino.
Voci e speranze. Ogni tanto, pure di recente, trapelano indiscrezioni circa il suo stato di salute, che sarebbe in miglioramento. Purtroppo, senza conferme ufficiali, non resta che sperare nella fibra da combattente di razza del tedesco e nella sua buona stella, sfavillante nelle 19 stagioni vissute da protagonista nella massima formula. Un terribile scherzo del destino, quello di Méribel, per un pilota che in carriera aveva ingannato la morte così tante volte. E che, speriamo di cuore, sia ripagato con un finale a lieto fine. Ad augurarselo, sono i milioni di fan di Michael in tutto il mondo: nessuno di loro lo ha dimenticato, dimostrandogli, praticamente ogni giorno, affetto e vicinanza.
Ma non è tutto. Sono tante le iniziative che continuano a celebrarlo, una su tutte quella inaugurata oggi, presso il Museo Ferrari di Maranello: si chiama “Michael 50” e vuole, appunto, ripercorrere i suoi successi – ricordiamolo, Schumi è l’unico ad aver vinto cinque mondiali Piloti consecutivi in F.1 –, e sottolinearne il contributo fornito allo sviluppo tecnico in casa Ferrari. E poi c’è il figlio Mick, che ha appena un anno e mezzo quando papà vince il primo mondiale in rosso a Suzuka. E che oggi sta seguendo le orme paterne, dopo aver vinto il Campionato europeo di F.3. Un legame di continuità forte, che in molti si augurano possa proseguire con l’approdo di Schumi Junior nella massima serie, come è stato per altri figli d’arte poi diventati campioni, come Damon Hill (figlio di Graham) e Jacques Villeneuve (primogenito di Gilles).
Sette stelle in professionalità.Ma che cos’ha significato Michael Schumacher per la F.1? Tanto, tantissimo, e al di là delle impressionanti statistiche – sette titoli iridati, 307 G.P. disputati, 91 vittorie, 68 pole position e 77 giri veloci – Michael ha dimostrato come solo l’applicazione totale nel proprio lavoro, dote che ha in comune con altri grandi colleghi come Ayrton Senna, Alain Prost, Niki Lauda e Jackie Stewart, può portare a risultati impensabili. Michael non è ricco di famiglia quando comincia, si fa strada semplicemente perché è più bravo e vuole sfondare a tutti i costi. Pur di vincere, infatti, non guarda in faccia a nessuno, neppure al fratello e rivale, Ralf. Ma non è certo un robot, come qualcuno, erroneamente, lo vuole dipingere: a Monza nel 2000, dopo la vittoria nel G.P. d’Italia, al culmine della tensione legata alla lotta per il titolo, scoppia a piangere in conferenza stampa, con il rivale Hakkinen pronto a confortarlo. È stata dura riportare la Ferrari al trionfo, anche per uno di “ferro” come lui.
Un professionista meticoloso. Schumacher è pure un lavoratore infaticabile, quando deve collaudare la monoposto nei test o passare ore e ore a sviscerare i problemi della vettura fin nei dettagli insieme ai tecnici, chiedendo il massimo da chiunque. Ed è, soprattutto, un uomo squadra, il miglior collante per un team. Può sbagliare, e ha sbagliato in carriera, in qualche occasione è rimasto coinvolto in episodi poco sportivi (con Damon Hill e Jacques Villeneuve), ma è sempre riuscito a fare un passo avanti, a migliorare, facendo tesoro delle esperienze, senza darsi mai per vinto.
Un uomo di squadra. Lo dimostra, ancora una volta, la sua storia alla Ferrari: approdato a fine 1995 alla corte di Maranello, voluto fortemente dall’Avvocato Agnelli, fece squadra con il presidente Luca di Montezemolo e il capo della Gestione sportiva, Jean Todt, contribuendo a ricostruire una scuderia malconcia. Impiega cinque anni a riportare il Cavallino al successo, poi non si ferma più. Delle tante sue gare che ci hanno regalato emozioni, ne vorrei citare alcune, nelle quali aggressività, controllo della vettura e voglia di vincere sono emerse, forse, in misura superiore al suo (già elevatissimo) standard: G.P. del Belgio 1992 e 1995, Spagna 1996, Monaco 1997, Italia 1998, Gran Bretagna e Ungheria 1998, Suzuka 2000, Stati Uniti 2003, Brasile 2006. E per voi quali sono state?