Nella primavera di cinquant’anni fa, al Palazzo delle Esposizioni di Ginevra, la storia dell’automobile e del design industriale subì un contraccolpo. Il prototipo di ricerca Modulo, presentato dalla carrozzeria Pininfarina su uno chassis Ferrari 512, era sceso sulla Terra. Ma non si era trattato di un atterraggio morbido. Per essere accettato dal management, dai saggi chiamati da fuori, e persino dalla Ferrari, si dovette sfidare una tempesta. I cui ultimi refoli soffiano ancora oggi.
La Modulo, che a tutti gli osservatori richiama il mondo della fantascienza, in realtà lo anticipa. Paolo Martin, che la disegnò per Pininfarina alla fine del 1967, quando aveva ventiquattro anni, sostiene di non aver mai visto film del genere. Neppure 2001 Odissea nello spazio, che peraltro arrivò nel ‘68. Ma se anche li avesse visti ne avrebbe avuto poca ispirazione. Nella celebre serie “UFO” per la Tv, che uscì nel 1970, l’auto che il biondo comandante Straker guida nel telefilm - a confronto della Modulo - è già vecchia.
Una scelta coraggiosa. Bisogna allora dare credito ai ricordi di Martin, quando dice che il primo schizzo della Modulo apparve per caso, in un angolo del suo tecnigrafo alla Pininfarina, giocando con la matita. Il gioco è ancora più divertente se si pensa che il giovane designer stava lavorando allora al progetto di una Bentley Continental con vestito italiano, un grosso coupé dalle linee classiche, una tema assai poco futuribile.Lo scarabocchio, nei mesi che seguirono, crebbe. Divenne una serie di disegni in scala 1:10, ancora grezzi, ma in cui la navicella a forma di freccia, simmetrica e priva di ruote, cominciava ad assomigliare a qualcosa di stradale. Il capoufficio di Martin, Franco Martinengo, un uomo colto e dai modi gentili, posò inevitabilmente lo sguardo su di essa. Ne parlò con l’autodidatta Martin e poi con i celebri “ingegneri” che guidavano l’azienda, i cognati Sergio Pininfarina e Renzo Carli. Anche nei figurini il concept lasciava interdetti. Il desiderio di farne qualcosa per uno dei prossimi Saloni era forte, ma si scontrava con la tradizione del marchio, fatta di eleganza e proporzioni. La più grande firma della carrozzeria mondiale voleva affascinare il suo pubblico, non sconcertarlo.
La creatura prende forma. Nell’estate del ’68 il giovane Paolo non andò in ferie. Si fece comprare invece otto metri cubi di polistirolo dall’officina, due batterie d’automobile e una serie di seghetti termici da traforo. Si costruì anche una gigantesca raspa per arrotondare le forme del suo giocattolo. E in pantaloncini corti, zoccoli e in compagnia saltuaria del custode della fabbrica, che lo guardava divertito, si mise a scolpire. In tre settimane la maquette in scala 1:1 era pronta, impreziosita da profili e parti dipinte. Vista in tre dimensioni faceva ancor più paura. Con il grande Pinin, scomparso nel ’66, dialogare intorno a una forma del genere sarebbe stato arduo. Anche se il fondatore, giunto all’apice del successo, si permetteva ogni tanto delle follie. Ma i due giovani cognati impallidirono alla vista della Modulo, che come tutte le opere d’arte usciva, e di molto, dall’universo delle cose consuete. Industrialmente parlando era un azzardo.- Ma mi scusi, Martin – disse Sergio - lei a cosa pensava quando ha fatto una cosa del genere? - Non a un’automobile, rispose il designer. Così la scultura finì sotto un telo, in un angolo dello studio fotografico. E vi rimase un anno, sorpassata al Salone di Torino del ’69 da un altro concept molto bello, su meccanica Ferrari, disegnato da Filippo Sapino secondo canoni più consueti.
Questa Modulo s'ha da fare. Improvvisamente però successe qualcosa. Renzo Carli, che più di Pininfarina era intrigato dalla ricerca in genere e dalla modernità tremenda della Modulo, aveva alla fine telefonato a Milano. Aveva bussato nientemeno che alla porta di Gio Ponti, che allora dirigeva Domus, invitandolo a venire a giudicare un oggetto che aveva portato aria di tempesta. Il grande architetto, quasi ottantenne, giunto di fronte al “mucchio di polistirolo” non aveva avuto dubbi. La Modulo doveva nascere. E subito. L’unica critica di Ponti fu per i grandi fori rotondi che interrompevano la superficie del cofano motore. “Il tondo è fermo nello spazio – sentenziò il maestro – mentre questa creatura punta in avanti. Farei anche quelli a forma di freccia.” Non è dato sapere con quale spirito il giovane Martin, che aveva fatto la scuola media ed aveva imparato tutto da solo, trovò l’animo per contraddirlo. “Mi perdoni, professore - disse arrossendo - ma quei fori servono solo a far uscire l’aria calda del motore. E me a piacerebbero più tondi”. Mezzo secolo dopo, non c’è dubbio che delle aperture lanceolate suggerite da Ponti sarebbero risultate corrette, ma più prevedibili. Mentre la semplicità della lamiera forata e della forma elementare, così rara su un’automobile, oggi ancor più di ieri, è bella perché sorprendente. Proprio come il genio estetico che distingue da sempre lo stile italiano. E che nel resto del mondo, per nostra fortuna, non hanno ancora imparato a copiare. Si è scritto in apertura che le estreme propaggini dell’uragano Modulo, e delle polemiche che generò, si sentono ancora oggi. L’anno prossimo si terrà al MAUTO la mostra sui novant’anni (più uno) di Pininfarina, posticipata per il Covid. Sono in molti a scommettere che di quell’opera d’arte di mezzo secolo fa, ma che oggi sembra ancora da inventare, si farò solo un accenno fra le righe.