1000 Gran Premi in settant’anni. È bello e significativo che sia un tracciato “old school” come il Mugello, appuntamento speciale di un Mondiale anomalo, a marcare un traguardo unico nel mondo della F1.
Questo week-end la Ferrari, eterna sirena per piloti e tecnici, malgrado tutto, si schiererà al via del suo millesimo GP. E poco importa che il Cavallino, tra polemiche e mancanza di risultati, oggi sia un po’ acciaccato, sempre più spesso vilipeso da quella specie di categoria di tifoso internettiano che oggi va per la maggiore e che sembra incapace di vivere la propria passione in modo atossico. Per il resto del mondo, quello dei veri sportivi, quel che continua ad importare è il peso complessivo del mito, la sommatoria di ogni test invernale con la neve a bordo pista, di ogni schieramento di partenza, del trionfo e della tragedia, attraverso cicli di vittorie memorabili e traversate di deserti agonistici in cui niente sembra andare per il verso giusto. Perché costruire il proprio retaggio è anche questo: la perseveranza dell’esserci. Sempre.
La gloria, vittorie e tragedie. Settant’anni di gare senza mancare un appuntamento per un’auto che trascende vittoria e sconfitta. Perché una Ferrari di Formula 1, vincente o meno, non viene mai accolta con indifferenza. La storia della rossa in F1 è una cavalcata che inizia a tinte eroiche, in un’era in cui le gare in macchina sono quasi una continuazione della Guerra appena conclusa, con i piloti giovani e pronti a tutto, mocassini e fazzoletti di seta al collo. Musso, Collins, Portago, Hawthorn, tutti belli, tutti morti col vento nei capelli. Fangio, il più grande e il più saggio. Ascari, che su una Ferrari muore in modo crudele e banale. Gli anni Sessanta, con l’arrivo degli inglesi forti per davvero, raccontano altre battaglie meravigliose e cruente, come quel GP d’Italia del 1961 in cui su una Ferrari muore Von Trips (e con lui 15 spettatori) e su una Ferrari vince Phil Hill, in quel misto di sensazioni contrastanti che per decenni ha contraddistinto il motorsport. I primi ricordi personali sono già a colori, sempre Monza come sfondo.
Storia di una passione. C’erano migliaia di tifosi appollaiati sui cartelloni pubblicitari sventrati, i rettilinei fiancheggiati da una serie ininterrotta di palchetti in tubi Innocenti. E c’erano trionfi, mai scontati, mai già scritti. Il “nostro” Clay (due volte), Lauda vincente e iridato nel ‘75, sanguinante ed eroico nel ‘76.L’apoteosi di Jody Scheckter scortato al traguardo da Villeneuve sulle T4 vagamente sgraziate. Già, Gilles Villeneuve, il più amato da Enzo Ferrari che in lui vedeva quasi un figlio e che negli anni 80, avari malgrado l’edonismo dilagante, regala la perla di Monaco ‘81, dove portare la pesante 126 CK sul gradino più alto del podio è un’impresa estenuante, dalle parti delle grandi avventure alpine, mitologicamente parlando. Altre gemme nel deserto arriveranno. Michele, primo al Nurburgring e leader del mondiale al giro di boa. La doppietta a Monza nel 1988, a poche settimane dalla scomparsa del Commendatore, quasi un regalo di Senna, quel Senna che con la rossa non ha mai potuto coronare una reciproca promessa d’amore e quel Senna che con la sua morte cambia la F1 per sempre.
L’istinto della corsa. Nuove regole, nuovi standard di sicurezza, benemeriti. Quelli che a certi puristi fanno ancora storcere il naso e quelli che contraddistinguono gli anni quasi robotici dell’era Schumacher. Vittorie in serie attraverso un costante, forsennato sviluppo. Materiali e piste nuove. Da 12 a 10 a 8 cilindri, giù fino agli ibridi di oggi, alle vie di fuga in asfalto, alla Formula 1 dei piloti teen-agers e dei social network. A molti non piace, ma è anche la F1 più veloce di sempre. E la Ferrari è sempre lì, perché quel che conta è quella serie infinita di chilometri sulle piste del mondo. Quell’esserci stati, sempre, a crederci, bussola dei sogni di ogni pilota e di ogni bambino, anche quando il podio sembra essere lontano.