Ciao Maestro! Ci lascia Aldo Brovarone - Ruoteclassiche
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14/10/2020 | di Giosuè Boetto Cohen
Ciao Maestro! Ci lascia Aldo Brovarone
Con grandissimo dispiacere annunciamo la scomparsa di Aldo Brovarone, uno degli ultimi "maestri" dello stile italiano.
14/10/2020 | di Giosuè Boetto Cohen

Stavamo preparando il ricordo di un promettente designer, morto giovanissimo vent’anni or sono, di cui leggerete nella rivista di dicembre. Ed ecco arrivare la notizia che il decano degli stilisti italiani, lui invece novantaquattrenne, se n’è andato l’altra sera. E’ Aldo Brovarone, tra i più bravi di sempre, conosciuto e amato dagli appassionati di oggi, quanto sconosciuto e silenzioso è stato lui, per gran parte della vita.

Quasi un secolo sulle sue gambe, e mezzo di professione. Ci sarebbe da leccarsi i baffi. Eppure è proprio quando spariscono gli uomini che hanno molto vissuto, e molto creato, che sentiamo più forte il vuoto che aprono. E già ci manca la memoria, il racconto diretto, il consiglio che tante volte abbiamo loro domandato. Brovarone, dopo esserne stato uno dei geniali e umili protagonisti, era diventato l’archivio vivente della carrozzeria italiana. Sempre pronto a rispondere al telefono, o di persona, se ci si presentava al minuscolo appartamento alla periferia di Torino. Era la manna dei giornalisti. Quando non ricordava una cosa, si scusava e invitava a richiamarlo più tardi, perché voleva pensarci, andare a controllare. E regolarmente, dopo un’ora, se ne veniva fuori con un pezzo di storia inedita, che – assicurava – era andata proprio così.

Umile come tutti i grandi. Parlava volentieri, ma senza spocchia, delle sue invenzioni. E aveva preparato un raccoglitore di plastica, quasi da liceale – per mostrarne le fotografie. Era orgogliosissimo della Maserati A6GCS, nata in realtà per la Cisitalia, quando lui aveva appena ventisei anni. Ma subito dopo aggiungeva, con voce da nonno: “perché sa, io poi ho fatto la Superflow e la Superfast… “ Un posto speciale lo serbava per la linea ad ala della Ferrari Superamerica: dopo le auto, la sua passione erano gli aeroplani e ne regalava a tutti i fan che andavano a trovarlo. A tempera o gessetto, sempre formato cartolina: “Tenga neh, così si ricorda...”

Accento sabaudo. Sulla Dino “Parigi” del ’65, la sua figlia più celebre, si sbilanciava meno. “Io l’avevo fatta più Ferrari” diceva sfilando l’ennesima miniatura. “Vede i fanaloni e la presa d’aria centrale? Ma sembrava che il Commendatore la volesse tenere un po’ in disparte, perché era piccola. E allora facemmo una cosa diversa: il frontale vetrato.”

“E la doppia curva del lunotto?” coglieva al balzo il cronista di turno.

“Ah, quello non l’ho fatto io! Fu un’idea dell’ingegner Carli…” E poi, cantilenando in piemontese, “ma lui ci aveva visto giusto, se siamo ancora qui a parlarne, dopo cinquant’anni.”

Avanguardie d’antan. Del fatto di essere rimasto quasi sconosciuto fino all’età della pensione non si curava. “A quel tempo era normale” diceva senza sospiri “io ero solo un impiegato, un figurinista. Le vetture, diamine, le firmava l’azienda.” Qualcuno gli attribuiva la paternità della Duetto, ma lui, in un’intervista per il mezzo secolo del prototipo, con noi prese le distanze. “Alcune novità stilistiche si possono riconoscere nei miei schizzi di dieci anni prima” aveva spiegato. “La coda allungata, le scanalature nella fiancata, i fari con le cupole di plexiglass. Ma la show car del ‘61 fu un lavoro di gruppo: con Battista Farina che controllava l’ultima Alfa della sua vita, Martinengo e Salomone a sudare sui piani di forma, e ogni tanto l’ingegner Carli, a dire la sua”.

Buoni rapporti. Gli ingegneri. Brovarone ne aveva un sacrosanto rispetto, anche quando mettevano le mani sulle sue creature. Accadde anche con Fioravanti, che addomesticò la prima Dino per farne un’auto di produzione. “Fece, in quel caso, un buon lavoro” ammetteva sereno. “E quando io andai in pensione, mi chiamò a dare una mano nella sua nuova azienda.”

Contegno. Per la biografia di Tom Tjaarda, uscita due anni fa, andammo a trovarlo per l’ultima volta. Dovevamo chiedergli una cosa difficile: era plausibile che l’Alfa 2600 Speciale del ‘62 - di cui nessuno ha mai reclamato la paternità, ma tanto assomiglia alla Fiat 2300 Lausanne dell’americano – fosse uscita dalla stessa matita? Come nella cabina di Rischiatutto, il vecchio campione prese tempo, volle riascoltare la domanda, mentre col pensiero scorreva i sacri testi, ritrovava, a 92 anni suonati, le immagini lontane mezzo secolo. Dopo qualche attimo rispose sicuro: “La somiglianza c’è, ed è indubbia. Ma io non ho mai sentito Tjaarda, finchè era in vita, parlare di questa vettura. Quindi continuerei a fare lo stesso, anche perché lui non ha bisogno che noi gli si aggiunga nulla. Era così giovane… e già bravissimo. Uno dei migliori.”

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