10 youngtimer protagoniste degli anni 90 - Ruoteclassiche
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04/04/2021 | di Paolo Sormani
10 youngtimer protagoniste degli anni 90
Sono dieci, tutte diverse ma accomunate dal fatto di aver rivoluzionato i vari segmenti di appartenenza nel corso degli anni 90.
04/04/2021 | di Paolo Sormani

Ce n'è una minuscola, qualcun'altra leggera e velocissima, almeno tre sono decisamente irraggiungibili. Non tutte sono destinate a diventare collezionabili, ma ognuna di queste youngtimer che hanno idealmente chiuso il XX secolo racconta una storia importante.

Il “secolo dell'automobile”, com'è stato definito il Novecento, ha sventolato il fazzoletto dal finestrino con sentimenti contraddittori. I modelli più significativi degli anni Novanta non potevano essere più differenti per genesi, carattere, narrazione. C'è la supercar che celebra il passato glorioso nel nome della tecnologia e, a pochi chilometri di distanza, quella che annuncia una nuova stella nel firmamento dei Costruttori. C'è quella che, dell'immagine di un marchio, rappresenta una svolta importante. Quella che sembra un vagone senza rotaie (ma anticipa il mercato) e l'altra tanto minuscola, quanto intelligente nel porsi qualche domanda sensata sulla mobilità urbana del secolo prossimo venturo. Ecco l'auto da collezionare e l'altra che proprio non vedremo mai in un'asta, ma che importa: ha svolto la funzione di utilitaria al meglio delle sue possibilità. Le accomuna una caratteristica tecnologica: sono tutte endotermiche. All'appuntamento con l'elettrico si sarebbe pensato dopo aver risolto il millennium bug.

Renault Espace. Non è un'imprecisione, sappiamo che arrivò a metà degli anni 80. Il fatto è che era così avanti, che la gente bloccava lo sguardo cercando la targa americana. Mentre i turisti americani gongolavano: finalmente una navetta comoda come le nostre! Galeotta fu la temporanea partecipazione al gruppo Simca della Chrysler, che aveva fatto il botto con la Voyager. Qualche ingegnere della Matra si chiese: e se anche in Europa... La fine è nota: l'Espace ha anticipato il concetto di maxi-monovolume cogliendo il frutto del tempismo con il restyling del '91.

Dodge Viper RT/10 – GTS. A proposito di americane: la Viper tornò a far sognare la California e i lunghi rettilinei dei suoi deserti, come non accadeva dalle muscle car estinte dalla crisi petrolifera. Effettivamente, l'idea del supermanager Bob Lutz e di Tom Gale, il boss del design Chrysler, era di tirare fuori i muscoli di una Shelby Cobra. La risposta al prototipo mostrato al Detroit Auto Show dell'89 fu tale, che a Detroit misero in piedi un “team Viper” per lanciarla sul mercato entro tre anni. Pur di assicurarsi una delle prime 285 Roadster RT/10 costruite, diversi appassionati pagarono un sovrapprezzo. Con il suo tetto a doppia bolla e le strisce bianche sulla carrozzeria (iconiche, si dice oggi) la versione GTS era la reincarnazione della Shelby Daytona Coupe. Come resisterle?

Lotus Elise S1. Intanto, anche dall'altra parte dell'Atlantico succedevano cose altrettanto interessanti. Tipo che un imprenditore bolzanino si era messo in testa di rilanciare Bugatti e Lotus. Quest'ultima, con una roadster due posti con il nome della nipotina. La Elise schiudeva un sorriso solo a guardarla pensando a quante cosette eccitanti ci si poteva fare per strada, anche da soli e nonostante il vecchio Rover 1.8 litri da 120 cv sotto il cofano anteriore. Telaio aeronautico in estrusi di alluminio incollati, divertimento puro, linee di gran classe, una vera “Lotus babe”: i Novanta sono stati davvero gli anni della leggerezza perduta.

McLaren F1. Poi c'era chi, correndo in Formula 1, aveva sempre e comunque la testa alla pole position. La McLaren la conquistò costruendo la sportiva stradale più potente e sofisticata su piazza. Gordon Murray e il suo team di progettisti conferirono un nuovo significato all'aggettivo “estremo” con la gran turismo aspirata più veloce di sempre. E, meraviglia delle meraviglie, confortevole e con due vani bagagli in cui trovava posto qualcosa di più dello spazzolino e delle mutande di ricambio – date le emozioni incontrollabili che la F1 era in grado di dispensare.

Ferrari F40. E volete che a Maranello stessero a guardare? I 40 anni della Scuderia andavano celebrati degnamente ed Enzo Ferrari mise il turbo sia alla macchina, sia allo spargimento di materiali superleggeri: telaio in kevlar, scocca in vetroresina, serbatoi in resine aeronautiche. Totale: 324 orari dichiarati – ma filava anche di più - e lo scettro di supersportiva di serie più veloce del sistema solare. Almeno finché un'altra primadonna made in Modena, la EB110, le guastò la festa; ma al cospetto dell'avvenenza della F40, abbassavano tutti gli occhi.

Pagani Zonda C12. Se la F40 celebrò il passato della Scuderia Ferrari con il meglio della tecnologia del presente, la Zonda guardava decisamente al futuro. Non poteva destare più scalpore, il biglietto da visita con cui Horacio Pagani si presentò al bel mondo dell'auto d'élite nel 1999. L'argentino naturalizzato modenese aveva lavorato per tutti gli anni Novanta all'auto che porta orgogliosamente il suo cognome. Il nome era quello del fortissimo vento caldo che impolvera la pampa. Raffinata scocca in materiale composito, V12 AMG realizzato appositamente grazie all'intercessione di un ex pilota, certo Fangio, linee da caccia - inteso come jet: Horacio aveva solo cominciato a stupire.

Mercedes-Benz Classe A. A volte si fa un gran passo avanti ragionando in piccolo. I segnali che a Stoccarda avevano capito che i box condominiali non li costruivano più spaziosi come una volta, erano arrivati già con la 190, più compatta delle berlinone sulle quali la Stella aveva scarrozzato la sua clientela. Quando fu svelata la W168, la prima monovolume ridotta e a trazione anteriore, furono in molti a dire: non può essere una Mercedes. Il milione e passa di Classe A vendute nei decenni ha contraddetto ogni timore e persino il passo falso del celebre “test dell'alce”, eseguito dalla rivista svedese Tenikens Värld nel '97. La W168 lo fallì clamorosamente ribaltandosi. Nessun problema: a Stoccarda fecero “i tedeschi” installando l'ESP, il primo sistema di controllo stabilità in dotazione a una piccola. E questa sì che è classe da lettera A.

Smart MCC. Ecco un'altra piccoletta che “non poteva essere una Mercedes”, ma in realtà lo era. La nuova citycar fu la felice intuizione dell'azienda tedesca in partenariato con l'estrosa casa orologiera svizzera Swatch. La sigla che distingueva la prima serie, MCC, era il nocciolo della questione: Micro Compact Car, un veicolo unicellulare concepito in risposta al traffico cittadino sempre più congestionato e caotico. Intelligente di nome e di fatto, perché era la risposta al dato statistico secondo cui in macchina ci si sposta quasi sempre da soli. Il Brabus tre cilindri turbo da 600 cc riduceva consumi ed emissioni. E poi la Smart s'infilava ovunque sostituendo il parcheggio di stile cubista, o più spesso surrealista, con quello puntinista. Similitudini pittoriche a parte, la Smart guardava avanti. Solo le prime volte si restava un po' basiti volgendosi indietro: dov'era finito il resto dell'auto, con i 20 milioni di lire che costava?

Alfa Romeo 156.La Berlina compatta del Biscione targato Fiat è stata significativa soprattutto per i fedelissimi di Arese. La 155 aveva provocato lacrime e disperazione fra gli Alfisti, per l'abbandono della tradizionale grinta sportiva del marchio e – orrore! - della trazione posteriore. Pur restando tutta avanti, nel '97 l'arrivo della 156 lenì l'affronto. La nuova tre volumi, aggressiva e italianissima nello stile firmato De Silva, ottenne un vasto consenso trasversale, tradotto in un boom di prenotazioni. Dopo aver ricevuto la corona di Auto dell'Anno 1998, ne fu approntata anche un'efficace versione GTA, con il mitico V6 Busso 3.2 litri.

Toyota Yaris. Sorpresi di trovarla in questa opinabilissima top ten degli anni Novanta? La Yaris è “solo” un'utilitaria giapponese, ma attenzione: ancora oggi è in gamma e gode di ottima salute, il che dovrebbe far pensare. “Il piccolo genio”, com'era reclamizzata nel 1999, l'anno del lancio, era una predestinata e dimostrò quanto le Toyota – e le auto giapponesi in generale – fossero ben congegnate e di qualità proverbiale. Con il suo 4 cilindri 1.000 da 68 cv a fasatura variabile, la Yaris forniva il necessario per spostarsi comodamente in città. Ancora meglio quando arrivò il 1.3 VVT-i. In ogni caso, prima del nuovo millennio quante “piccole” potevano offrire di serie il doppio airbag, l'autoradio con strumentazione digitale al centro della plancia, il servosterzo e i sedili posteriori scorrevoli?

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