Il prossimo 23 novembre saranno 60 anni dall’ultima edizione della Carrera Panamericana, tra le più famose gare della storia dell’auto, un tempo la corsa su strada più difficile. E, dati alla mano, per il numero di incidenti, feriti e vittime (sia piloti, sia spettatori) anche la più pericolosa. L’estenuante competizione messicana univa i due confini più lontani dello Stato, lungo un tracciato di 3.000 chilometri e in condizioni climatiche assolutamente straordinarie: dal clima tropicale del confine con il Guatemala agli oltre 3.000 metri delle strade andine, con sbalzi di temperatura nell’ordine di decine di gradi.
Era nata per festeggiare il tratto messicano della Panamerican Highway (oltre 25.000 chilometri dall’Alaska al sud del Cile) e per favorire le vendite delle vetture americane ma, a parte la prima edizione, fu pressoché monopolizzata dai marchi europei (Ferrari, Lancia, Mercedes, Porsche) e dai più famosi piloti di allora (Fangio, Hans Herrmann, Piero Taruffi, Franco Cornacchia…).
L’edizione del ’54 sarebbe stata l’ultima: l’anno successivo, dopo il terrificante incidente di Le Mans e dietro le pressioni da parte dei marchi americani coinvolti nella corsa – mai veramente capaci di opporre una dignitosa offensiva alle strapotenti vetture europee - si decise di interrompere per sempre quella che, secondo Alfred Neubauer, storico Direttore Sportivo Mercedes-Benz di quel periodo, era una specie di somma tra Mille Miglia, 24 Ore di Le Mans, circuito del Nurburgring e Gran Premio di Tripoli.
Vinse (dopo un estenuante lotta con Phil Hill) Umberto Maglioli a bordo della mostruosa 375 Plus con carrozzeria di Pininfarina, motorizzata con il V12 progettato da Aurelio Lampredi, un propulsore di F1 da quattro litri e mezzo da oltre 300 Cv (che alla 24 Ore di Le Mans di qualche mese prima, aggiornato fino a 5 litri, aveva trionfato con Froilan Gonzales e Maurice Trintignant). Al traguardo di Ciudad Juarez, nel nord del Messico, il pilota piemontese arrivò con meno di un minuto di vantaggio sul giovane americano a bordo di una 375 MM.
Tale era, in quell’epoca il progresso tecnologico (auto sempre più veloci e strade sempre più moderne), che Maglioli percorse tutte le tappe in 17 ore e 40 minuti, 10 ore in meno rispetto al vincitore della prima edizione del ’50. La gara fu “segnata” dalla mancanza delle Lancia (la D24 aveva vinto l’anno prima) ma a questa grave assenza sopperirono le Porsche 550 RS. Le piccole barchette tedesche equipaggiate con un “motorino” pari a 1/3 del motore Ferrari, arrivarono terza e quarta assoluta.
Rinata nel 1988 come formula rievocativa, la Carrera Panamericana si corre, oggi, coprendo circa metà percorso. L’ultima edizione, partita da Huatulco, si è conclusa a Zacatecas: l’ex pilota di F1 Erik Comas e Isabelle del Sadeleer hanno portato alla vittoria la loro Studebaker del Team Tag-Heuer.
Al via una cinquantina di automobili (tra cui Porsche 356 e 911, Ford Mustang, Studebaker, Triumph, Datsun e Volvo) appartenenti per lo più agli Anni 60 e 70. Si rivive parte della magica atmosfera della vecchia corsa lungo sette giorni di rally, con prove speciali ma anche tanti momenti suggestivi nelle mille sfaccettature del paesaggio messicano.
Le vetture, “addobbate” come per una Dakar, esprimono alla perfezione il clima: non ci sono (purtroppo, forse) le Ferrari 340 Mexico, le Lancia D24, le Mercedes 300 SL Gullwing o le Porsche 550 RS. La Carrera si vive con spirito d’avventura, cercando a tutti i costi di ricreare la magica atmosfera dei bei “pericolosi” tempi andati: carrozzerie variopinte, fari supplementari di profondità, roll-bar a profusione, equipaggiamenti ignifughi. Siamo agli antipodi dalle grandi passerelle internazionali come la Mille Miglia, siamo al cospetto di una gara dura, impegnativa, condita con un po’ di quella sana incoscienza che rende l’avventura ancora più elettrizzante.
Alvise-Marco Seno