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Indy 500: riprovaci, Ferrari!

A Indianapolis il Cavallino non ha mai galoppato granché. Giusto un ritiro, una qualificazione fallita e un prototipo diversivo. Eppure fu la 500 Miglia di Indianapolis a spronare un adolescente Enzo Ferrari a diventare pilota e, più tardi, costruttore di successo. E se ci riprovassero davvero?

Potenza della suggestione e di Mattia Binotto. È bastata una frase del team principal della Scuderia Ferrari con un velato riferimento a Indianapolis e subito la curiosità si è scatenata. “Abbiamo iniziato a valutare programmi alternativi e confermo che stiamo considerando la IndyCar, che attualmente è una categoria molto diversa dalla nostra, ma è previsto un cambio di regolamento dal 2022”, ha dichiarato. Quindi il Cavallino rampante raccoglierà la sfida della 500 Miglia di Indianapolis? Suona più come una presa di posizione nei confronti del tetto di budget imposto dalla FIA. Una replica della stessa polemica politico-sportiva che negli anni Ottanta spinse Enzo Ferrari a costruire la 637, la IndyCar che non corse mai e che fu strumentale nel malcontento del Drake nei confronti del precariato regolamentare della Formula 1. A scendere sul “Brickyard” di Indianapolis il Cavallino ci ha provato solo un paio di volte e con scarsa convinzione. Eppure, se la Scuderia Ferrari esiste, è anche grazie alla Indy 500. Insomma, una questione di corsi e ricorsi.

Per la gloria e per il bottino. Fu una fotografia in bianco e nero pubblicata sulla “Stampa Illustrata” nel 1912 ad agitare la passione del giovanissimo Enzo Ferrari. Ritraeva il pilota italoamericano Ralph De Palma, che a Indy vinse nel ’15. “Questo è un italiano. Perché un giorno non potrei anch’io essere un pilota d’automobili?”, racconta Ferrari in una biografia. “Tutti gli atti venuti in seguito, sono stati una conseguenza di questo sogno dell’adolescenza”. Quindi la carriera di pilota, direttore sportivo e costruttore nacque dalla suggestione di Indianapolis. Negli Stati Uniti, Ferrari aveva già trionfato con le Alfa Romeo 12C alla Coppa Vanderbilt del 1936, con Tazio Nuvolari al volante. Negli anni Cinquanta la 500 Miglia di Indianapolis faceva parte a tutti gli effetti del Campionato del mondo di Formula 1, ma era evitato dalle Scuderie europee per l’onerosa trasferta transatlantica. A spingere Enzo Ferrari a scendere sul “Brickyard” di Indy furono due persone molto importanti per la sua storia, l’importatore Luigi Chinetti e Alberto Ascari. Per il primo, una vittoria nella gara più popolare degli States sarebbe stata fondamentale dal punto di vista commerciale, proprio mentre cercava di lanciare le Ferrari come berlinette sportive ricreazionali e status symbol. Ascari era, semplicemente, il campione che ardeva dalla voglia di vincere una delle tre gare che – con la 24 Ore di Le Mans e  il Grand Prix di Monaco – compone la “Triple Crown”, il nirvana del pilota automobilistico. 

Un poker di Ferrari Special. Nel 1952 il Drake ruppe gli indugi e inviò a Indianapolis ben quattro 375 F1 modificate a Maranello. Il telaio in tubi d’acciaio fu modificato nel passo e irrobustito. Anche l’assetto venne rivisto con sospensioni indipendenti più rigide e gomme maggiorate. L’aumento di compressione del V12 Lampredi e l’adozione di tre nuovi carburatori Weber quadricorpo – con presa d’aria più ampia sul cofano – aumentarono la potenza a 400 cv a 7.500 giri. Le 375 Indy, o “Ferrari Special” come furono presentate alla stampa americana, furono accompagnate da Aurelio Lampredi, dal capo meccanico Stefano Mazza con due aiutanti e dal direttore sportivo Nello Ugolini. Chinetti avrebbe pensato – a spese sue, tanto per cambiare – alla logistica e ai ricambi. La Ferrari ufficiale sarebbe stata affidata a “Ciccio” Ascari, le altre ai piloti americani Bobby Ball, Johnny Mauro e John Parsons. E fu un disastro. Delle quattro 375 Indy, solo la numero 12 di Ascari riuscì a qualificarsi 19esima su 33 vetture. Il campione milanese riuscì a portarla fra le prime dieci, prima che un problema strutturale alle ruote Rudge-Whitworth lo mettesse fuori gioco dopo appena cento miglia. E dire che quel GP fu l’unico che Ascari non vinse quell’anno – a quello della Svizzera aveva rinunciato proprio per prepararsi alla Indy 500.

Buchi nell’acqua. Luigi Chinetti non era tipo da rinunciare facilmente a un traguardo. Elaborò la “Ferrari Special” con un serbatoio e un radiatore supplementari, con l’intenzione di iscriverla alla 500 Miglia del 1954. Fu un buco nell’acqua e Indy continuò a essere regno incontrastato delle inline four Offenhauser. Con Ascari alla Maserati, nel maggio del ‘56 fu invece Nino Farina a partecipare ai “rookie test” sulla Ferrari “Bardahl Experimental”, assemblata dalla OSCA con motore 6 cilindri in linea tipo 446 su telaio Kurtis Kraft.  Altra delusione. L’avventura si fermò nelle qualifiche, a causa della problematica iniezione meccanica Hilborn. Dovettero passare trent’anni prima che a Maranello si tornasse a parlare di IndyCar.

Lo spauracchio 637. Nel clima di generale insoddisfazione verso la Formula 1 che opprimeva Maranello alla metà degli Ottanta, prese il via il progetto 637, destinato alla serie americana CART. Nonostante l’esperienza tecnologica accumulata in F1, gli States a ruote scoperte continuavano a essere un pianeta sconosciuto per la Ferrari. Fu deciso di appoggiarsi al team Truesports di Jim Trueman. Il quale, accompagnato dal collaudatore Bobby Rahal, portò a Fiorano la monoposto rossa March 85C-Cosworth DFX che aveva vinto per tre volte nel Campionato CART dell’85. La March fu collaudata sia da Rahal, sia da Michele Alboreto. E si fermò lì, perché l’anno successivo la Ferrari decise di costruirsi la propria IndyCar, la 637, progettata da Gustav Brunner con telaio a struttura mista e motore V8 Turbo tipo 034 da 2.65 litri. Per quanto ben fatta, la 637 si rivelò un progetto marginale. Anzi un costoso diversivo, uno spauracchio agitato da Enzo Ferrari nei confronti del Circus. La IndyCar di Maranello non vide mai Indianapolis: si spinse al massimo ad Arese, destinata all’Alfa Romeo per un ulteriore programma sportivo velleitario. Oggi, 34 anni dopo, un altro braccio di ferro ravviva il miraggio della Indy 500. Non ci crede nessuno, ma… e se ci riprovassero davvero?

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