Alla metà degli anni 50, sir David Brown decise di fare il grande passo e schierare due coppie di Aston Martin nelle Sport Prototipi e nel Mondiale F1. Costruite in casa e con Carroll Shelby e Roy Salvadori al volante. L’avventura iniziò tardi e durò poco.
Il marchio Aston Martin è tornato nel circus della Formula 1 con il rebranding di un’altra monoposto, la Racing Point. A sua volta ribattezzata “the pink Mercedes”, data la sospettosa somiglianza con la AMG F1 W10. Che una vettura in British Racing Green si appoggi a una piattaforma tedesca collaudatissima e vincente, ormai scandalizza quasi più nessuno: sul tavolo verde del Circus le carte sono state sparigliate da molto tempo. Gli amanti della tradizione e dell’originalità possono risalire a quando Aston Martin scese sulle piste della Formula 1 per la prima volta. Era la fine degli anni 50 quando si costruiva ancora tutto in casa, alla vigilia dell’era dei “garagisti” inglesi. Andando ancora più a ritroso, scopriamo che le prime Aston Martin da Gran Premio risalgono addirittura a un secolo fa.
Le prime vetture da GP. Fin dagli esordi, il co-fondatore Lionel Martin sognava di sfoggiare il nome dell’azienda creata con Robert Bamford nella prestigiosa vetrina delle competizioni. Un campionato del mondo riservato alle vetture da Gran Premio era ancora una visione lontana, ma l’occasione si profilò con il Tourist Trophy del 22 giugno 1922. Per la celebre competizione all’Isola di Man, fu approntato un nuovissimo motore da corsa 1.5 litri 16 valvole bialbero in testa. Erogava 55 cv a 4.200 giri e poteva senz’altro dire la sua, in un’auto biposto – pilota più meccanico, così volevano i regolamenti – che pesava appena 75 kg ed era accreditata di quasi 150 kmh. La nuova vettura fu sponsorizzata dal facoltoso conte Louis Vorov Zborowski con la bellezza di diecimila sterline dell’epoca: una piccola fortuna. Purtroppo i primi due esemplari, contrassegnati TT1 e TT2, non furono completati in tempo per il Tourist Trophy. Così fu deciso di schierare le due Aston Martin nel successivo Grand Prix di Francia a Strasburgo, il 15 luglio. Per i giovani costruttori inglesi, sarebbe stato il debutto assoluto nelle corse. Le Aston Martin da GP raggiunsero la Francia da Abingdon Road, a Kensington, guidando su strade aperte. Tipico dei ruggenti anni Venti: immaginate di trovarvi una F1 negli specchietti ora, in autostrada… Il gap di cilindrata – e quindi di potenza – con le altre GP da 2 litri si fece sentire: per sostenere la concorrenza, Zborowski e l’altro pilota Clive Gallop tirarono al massimo. Risultato: doppio ritiro per noie meccaniche.
Un sedile per due. Per rilevare ulteriori partecipazioni internazionali di un certo rilievo, occorre saltare al GP del Belgio riservato alle vetture sport del 1946. Con la Seconda guerra mondiale di mezzo, l’assenza di sviluppo consentiva ancora a diversi modelli degli anni Trenta di schierarsi al via nutrendo ragionevoli speranze di podio. In particolare, le Aston Martin “Speed Model” da 2 litri del 1936 si erano dimostrate ancora competitive. Al Bois de la Cambre presso Bruxelles andò benissimo: il pilota ed ex agente dei servizi segreti inglesi St John Ratcliffe Stewart Horsfall, Jock per gli amici, precedette un nutrito numero di BMW, Frazer Nash e Alvis sotto la bandiera a scacchi. Niente male, per una macchina vintage. Con l’arrivo di David Brown, negli anni Cinquanta le Aston Martin si dedicarono alle competizioni di endurance. Nel ‘55, sir David riconobbe il prestigio internazionale portato dalla nuova Formula 1 e decise l’audace piano di costruire una piattaforma di monoposto che potesse risultare competitiva sia nel nuovo campionato, sia nel Mondiale Sport.
Puntuale nella 24 Ore, in ritardo di anni. Il debutto in Formula 1 fu affidato alla DBR4, la prima Aston Martin a ruote scoperte. L’inizio dei collaudi risale al 1957, ma la griglia di un GP non la vide prima del 1959. Se quell’anno vi suggerisce qualcosa, siete nel giusto: fu quello della storica vittoria alla 24 Ore di Le Mans (e del titolo Sport) della DBR1 guidata da Carroll Shelby e Roy Salvadori. Lo sviluppo della DBR4 era stato messo in subordine, di conseguenza il ritardo tecnologico fu impietoso: la monoposto inglese era nata vecchia. Come le Ferrari, montava ancora “i buoi davanti al carro”, cioè il 6 cilindri in linea anteriore da 2.5 litri da 250 cv, marchio di fabbrica Aston Martin. La DBR1 era pesante e penalizzata dal punto di vista aerodinamico, a causa della vistosa presa d’aria anteriore e dal parabrezza all’impiedi. Adottava ancora il ponte posteriore de Dion, mentre le altre monoposto erano già passate alle sospensioni a quattro ruote indipendenti.
Una gran rottura! La collaudata coppia di piloti ufficiali Shelby-Salvadori fece una fatica d’inferno, per qualificarsi rispettivamente al 10° e 13° posto, sui 15 disponibili nella griglia del GP d’Olanda del ’59. Il debutto andò, se possibile, peggio con il doppio ritiro per rottura del motore. Sir David Brown non si diede per vinto: si poteva fare meglio. Per la stagione 1960 fece allestire la nuova DBR5, con la novità del “pilota gentiluomo” francese Maurice Trintignant al volante, in sostituzione del cardiopatico Shelby. Rispetto alla versione precedente, la DBR5 era stata notevolmente alleggerita e fornita di sospensioni indipendenti. Il motore però restava pesante e anteriore, proprio nell’anno in cui la Cooper Climax fu la prima vettura con propulsore posteriore centrale ad aggiudicarsi un titolo di F1. Per le Aston Martin fu un Calvario, terminato senza conquistare la miseria di un solo punto. A quel punto Brown decise di abbandonare la Formula 1, proprio all’alba del decennio che vide protagonisti i Costruttori inglesi.