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Marzo 1943: il piccolo-grande sciopero degli operai di Mirafiori

In una primavera di guerra per noi quasi inimmaginabile, nella fabbrica sfregiata dai bombardamenti, qualcuno incrocia le braccia. E’ la prima protesta operaia in vent’anni di regime.

Più che automobili, questa settimana dovremmo titolare “autocarri nella tempesta” perché ciò veniva prodotto  – insieme ai carri armati, agli aeroplani, i motori marini  – dalla Fiat Mirafiori nel marzo fatidico del 1943.  La fabbrica più moderna d’Europa, inaugurata nel ’39 sognando il trasporto di massa, era diventata invece il maggior arsenale d’Italia. Il motore di una guerra che – solo l’ignoranza e il fanatismo potevano ancora illudere – andava dritto verso la sconfitta.
Fu così che gli operai della Fiat, poi quelli di altre aziende torinesi, quindi nella regione e via via fino a Milano, incrociarono per la prima volta le braccia. Era una cosa sconcertante, innominabile, mai successa negli ultimi vent’anni. Il fascismo – cominciavano a pensarlo in tanti – aveva i giorni contati.

La fine dell’Impero. Nel novembre del ’42 si era delineata una svolta decisiva nell’andamento della guerra.  A Stalingrado l’Armata Rossa aveva bloccato l’avanzata della Wehrmacht ed era passata rapidamente alla controffensiva. In Nord Africa un grosso contingente anglo-americano era sbarcato, aprendosi la strada dal Marocco ad Algeri. Nel gennaio ’43 erano cadute la Tunisia, Tripoli e il resto della Libia. Per gli italiani era cominciata l’odissea tra i ghiacci dell’ARMIR e dei prigionieri dell’impero dissolto al sole.
Torino aveva visto sfollare, nell’arco di pochi mesi, quasi metà della popolazione: alla fame e al freddo si aggiungeva il presentimento che i bombardamenti aerei a tappeto, che avevano fatto la loro prima, micidiale comparsa all’inizio dell’inverno, si sarebbero presto moltiplicati. Insieme ai civili, anche tante aziende dell’indotto erano allo sbando o cercavano di riorganizzarsi fuori città. Le forniture di acciaio dalla Germania si erano assottigliate e anche i maggiori appaltatori non tenevano più fede agli impegni. La produzione della Fiat era ridotta a meno della metà del suo potenziale.

Sciopero in sordina. In questo scenario oscuro, mentre l’ipotesi di una pace separata sembrava, alle persone di buon senso, l’unica via d’uscita per salvare il Paese, prese forma la prima protesta operaia alle officine di Mirafiori. Numericamente risibile, in verità, se si pensa che a far pressione su ventimila lavoratori (compresi quelli del Lingotto) furono solo un’ottantina di militanti comunisti clandestini, e che il fermo toccò, alla fine, solo i reparti di tre officine. Ma fu comunque un fatto senza precedenti, che aveva vinto il clima di paura e di controllo ancora rigidissimi. E che nello spazio di un mese si sarebbe esteso a gran parte del nord Italia, mandando al regime un segnale inequivocabile.

La protesta. La prima ragione di protesta era economica e seppur concretissima serviva a dissimulare gli intenti politici di ben maggiore portata.  Dal 1940 il valore reale della paga media delle maestranze si era ridotto del 45%. Tenendo presente che già prima del conflitto ci fosse ben poco da scialare, e che la scarsità di viveri e di rifornimenti spingeva gli aumenti e il mercato nero, è facile immaginare la miseria della vita dei meno abbienti.
Si arrivò a una indennità di circa un mese di stipendio concessa dal Ministero della Corporazioni agli operai delle aziende bloccate dai bombardamenti, ma il beneficio non fu esteso alla Fiat. Vittorio Valletta, allora amministratore delegato, protestò duramente, paventò il rischio, ma a Roma rimase inascoltato. E così si arrivò allo storico sciopero di marzo. Simbolico, certo, ma non effimero. Il primo di una fiumana che avrebbe spinto l’azienda verso il suo destino, alla fine della guerra.

Onore al merito. Il contesto e il significato del contrasto – sotterraneo o manifesto – che gli operai opposero in quegli ultimi tre anni sono diversi e mutarono man mano che la situazione precipitava. Insieme alle strategie e ai funambolismi dei dirigenti essi contribuirono a difendere le macchine dalla confisca, gli uomini dalla deportazione o dai prelievi di leva, le officine da ulteriori devastazioni. Quando, nelle convulsioni dell’epilogo, sulla Fiat passò l’ombra di una socializzazione – prima quella di convenienza della Repubblica Sociale, poi quella più coerente del socialismo rosso – il fronte operaio fu imbrigliato, bloccato, diviso, e infine rientrò nei ranghi di un gioco molto più grande di lui. Fortunatamente, bisogna dire, senza alcun dubbio.  Ma questa è un’altra storia. E nulla toglie a chi ebbe il coraggio di alzare la testa, in un marzo lontano di settantotto anni fa.

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