Come si traduce Bianchina in giapponese? In fatto di auto, l’Italia e il Sol Levante condividono un punto di forza nella loro storia automobilistica: le microcar.
La capacità innata di ottenere il massimo dal minimo, di sfruttare il poco spazio a disposizione per motorizzare il Paese su macchinine economiche, affidabili e… unicellulari. Sono state un’alzata d’ingegno che accomuna due nazioni che, altrimenti, non potrebbero essere più distanti. Da noi la Isetta, la Nuova 500, la Bianchina e più tardi la 126 – tutte auto di culto in Giappone. Da loro la R360, una minicoupé presentata giusto 60 anni fa, che nella motorizzazione di massa e nella storia centenaria della Mazda ha recitato un ruolo importante, anche se misconosciuto al pubblico europeo.
Alzare l’asticella. La R360 della Toyo Kogyo – così si chiamava ancora la Mazda a quei tempi - stabilì un nuovo standard costruttivo e di design nell’affollato segmneto delle “kei car”, le microcar giapponesi, in un momento cruciale della crescita economica. Quasi del tutto ignota al di fuori del Giappone, la R360 fu un successone sul mercato domestico. Basti sapere che vendette 4.500 esemplari il primo giorno in cui fu commercializzata, nel maggio del 1960. Quell’anno la micro-Mazda rappresentò circa i due terzi del venduto nel segmento e il 15% del totale complessivo auto. Era l’alba di una nuova era di libertà e di benessere, diffuso su auto formicolanti e anticonvenzionali. Così piccole, da sembrare costruite in scatola di montaggio a casa. Nel contenere gli ingombri a 3 per 1,3 metri e la cilindrata, il Governo giapponese intendeva far crescere l’industria automobilistica nazionale incoraggiando la produzione di modelli affidabili. Il sogno di un’auto per ogni famiglia sembrava alla portata di tutti.
Piccola, grande kei car. La capostipite delle Mazda non era la prima kei car sul mercato, ma un po’ come per l’Autobianchi Bianchina, si distingueva per il suo stile curato e space-age, la leggerezza, la facilità di guida e soprattutto di acquisto. Il suo piccolo V-twin 4 tempi posteriore era più fluido, durevole e meno inquinante dei motori 2 tempi che si agitavano nelle altre microcar giapponesi uscite alla fine degli anni Cinquanta. La sigla indicava naturalmente la cilindrata, 360 cc per 16 cv e 22 Nm di coppia. La velocità massima di 90 orari era adeguata ai limiti e alle condizioni delle strade giapponesi del 1960. Okay, può non sembrare molto, ma sono le stesse prestazioni di un Cinquino prima serie. Con presupposti simili, allettare la potenziale clientela era facile come scalare monte Fuji. Per controbilanciare la povertà di prestazioni, la Toyo Kogyo si concentrò sui fattori sui quali poteva agire, per esempio la gestione del peso e l’innovazione del design. Esatto, ci avete preso: fu già dalla prima Mazda che nacque l’ossessione per la distribuzione e l’alleggerimento delle masse che anni dopo avremmo rivisto nelle roadster Mx-5. Ne uscì l’utilitaria quattro posti più leggera del suo segmento e, probabilmente, al mondo. Per far scendere la lancetta della bilancia, in Mazda studiarono di tutto. I carter delle teste erano di alluminio, la scatola della trasmissione e il serbatoio dell’olio in lega di magnesio. Anche il cofano era in alluminio, mentre il vetro posteriore così graziosamente incurvato non era affatto vetro, ma un plexi sviluppato per la R360. La struttura del telaio monoscocca offriva ulteriore risparmio di peso e maggiore resistenza agli urti, anche questi elementi portanti dell’attuale piattaforma Skyactiv.
Costava come la Bianchina. Se la leggerezza determinava anche il comportamento dinamico della R360, le sospensioni indipendenti sulle quattro ruote riducevano le vibrazioni e aumentavano il comfort di guida, specie sulle diffusissime strade sterrate dei tempi. Oltre che per il motore 4 tempi, la Mazdina si alzava di una spanna anche grazie al cambio manuale a 4 marce (con trasmissione semiautomatica opzionale) rispetto ai 3 marce della concorrenza. E poi, era una coupé: ben diversa dalle altre berline-scatoletta... Nonostante la tecnologia innovativa e i materiali costosetti, i criteri di efficienza adottati dalla produzione in serie della fabbrica di Hiroshima permisero alla Mazda di tenere il prezzo sotto i 300mila Yen dell’epoca, grossomodo 515.000 lire dell’epoca. Guarda (ancora) caso, era lo stesso prezzo della Bianchina in Italia. Alla quale somigliava non poco. Alla R360 base fu affiancata la berlina 2+2 P360 Carol nel 1962 e, due anni più tardi, la versione cabrio. In tutto la piccola, grande Mazda restò in produzione per otto anni, cioè finché la Familia 800 le rubò la scena e le ambizioni nel Giappone del boom.