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26/09/2011 | di Redazione Ruoteclassiche
NEANCHE UN GRAZIE
Nessuno si faccia illusioni: l’Italia è un Paese in declino. La sola “industria” che, sebbene improduttiva, veda ogni anno aumentare il “fatturato” è quella della politica. In questo quadro, non sorprende che la Fiat, la massima industria privata nazionale, sposti il proprio epicentro e i propri investimenti lontano dall’Italia. Gli affari sono affari. Colpisce però […]
26/09/2011 | di Redazione Ruoteclassiche

Nessuno si faccia illusioni: l'Italia è un Paese in declino. La sola "industria" che, sebbene improduttiva, veda ogni anno aumentare il "fatturato" è quella della politica. In questo quadro, non sorprende che la Fiat, la massima industria privata nazionale, sposti il proprio epicentro e i propri investimenti lontano dall'Italia. Gli affari sono affari. Colpisce però la disinvoltura con cui la Fiat ha archiviato le enormi opportunità che l'Italia, attraverso governi compiacenti, le ha offerto per circa un secolo.

Autocarri per la Libia

Il fondatore Giovanni Agnelli apprezzò per la prima volta i benefici della politica con le forniture militari a sostegno della spedizione in Libia nel 1911. Niente a confronto con i contratti che gli sarebbero arrivati con la guerra del 1914-18, quando la produzione di autocarri salì vertiginosamente e la militarizzazione degli operai permise di azzerare ogni conflittualità sindacale e di organizzare, nel 1916, turni di lavoro speciali. La parte del leone la ebbe in realtà l'Ansaldo di Genova, un gigante con 80.000 addetti, ma anche alla Fiat non andò male: alla fine del conflitto era balzata, con 40.000 dipendenti, al terzo posto fra le grandi industrie italiane rispetto al trentesimo che occupava nel 1914. La crisi arrivò dopo, con la cessazione delle forniture militari. Ma quei 40.000 dipendenti pesarono parecchio sulle decisioni del governo, il quale, impegnato a mantenere una difficile pace sociale, stanziò 65 milioni di lire a titolo quasi gratuito per la riconversione degli impianti industriali. Giovanni Agnelli incassò i soldi, dimezzò il personale, e investì il denaro per assicurarsi il controllo sul Credito Italiano: un capolavoro. Benché torinese vecchio stampo (era stato nel Savoia Cavalleria), egli capì presto che la frequentazione dei salotti romani gli avrebbe offerto grandi opportunità. Eletto Senatore del Regno nel 1923, poté avvicinarsi a quei centri del potere dove gli interessi della politica e della finanza, dei pubblici uffici e dei privati, spesso si confondono. Due anni dopo, il governo varò provvedimenti a favore della grande industria (e la Fiat, come abbiamo visto, era il terzo gruppo del Paese): l'abolizione delle imposte sui dividendi e l'esenzione dall'imposta sul sovrapprezzo realizzato con l'emissione di nuove azioni. Nel '27 la Fiat subì le conseguenze della rivalutazione della lira (19 lire per un dollaro), ma l'anno dopo il governo trovò modo - diciamo così - di farsi perdonare: aumentò i dazi doganali sull'importazione di vetture americane (arrivarono al 130%!). Restavano alla Fiat due spine nel fianco: la filiale aperta dalla Ford nel porto franco di Trieste e, ben più fastidiosa, la fabbrica che Ford intendeva aprire a Livorno. Mussolini risolse la questione a modo suo: fece chiudere l'una (1929) e negò l'autorizzazione per l'altra. La Ford non si arrese e tentò nel 1930 un'intesa con l'Isotta Fraschini, che lo stabilimento ce l'aveva già (e lavorava poco). Ancora una volta l'autorizzazione fu negata (stupisce l'ingenuità della Ford, che quasi sessant'anni dopo, nel 1986, ci riprovò con l'Alfa Romeo, pensando che nel frattempo qualcosa in Italia fosse cambiato).

L'85 per cento del mercato

Intanto, si avvertivano anche in Italia gli effetti della crisi internazionale scoppiata dopo il crollo di Wall Street nel '29. Importanti aziende come OM e Itala passarono nell'orbita Fiat, che nel 1932 arrivò a controllare l'85 per cento dell'intera produzione nazionale di autoveicoli. Ma pure per la Fiat la crisi fu tosta: la produzione precipitò quell'anno da 32.615 a 18.807 vetture, il calo più forte in Europa. Nel frattempo, ci si preparava a una nuova guerra, quella d'Etiopia (1935-36). All'inizio la Fiat ebbe un ruolo di secondo piano nelle forniture di autoveicoli e se le nostre truppe arrivarono ad Adua e a Makallè lo dovettero ai 3000 ottimi autocarri Ford giunti dagli Usa e dalla Gran Bretagna. Però si rifece, tanto che nei bilanci redatti dopo la fine della guerra registrò larghi margini di profitto, che Agnelli si affrettò a investire nel nuovo stabilimento di Mirafiori prima che entrasse in vigore un'imposta straordinaria sul patrimonio e sul capitale delle società per azioni. Le sanzioni che colpirono l'Italia in seguito alla guerra d'Etiopia ebbero pesanti conseguenze sull'economia nazionale e quindi sulle vendite di automobili. In questo contesto, la Fiat apprezzò sicuramente che fosse abolita (1938) la tassa di circolazione. L'anno seguente la settimana lavorativa venne ridotta a 40 ore: non una conquista sociale, ma una concessione tardiva: la Germania l'aveva introdotta subito dopo la Grande Guerra, la Gran Bretagna nel 1920, la Francia nel 1936. La seconda guerra mondiale assicurò ingenti commesse militari, ma la fabbrica subì bombardamenti incessanti che ne ridussero la capacità produttiva al lumicino. Dopo la ritirata dei tedeschi, la Fiat passò sotto il controllo dei commissari politici e i suoi dirigenti epurati. Bisogna leggere "Il sangue dei vinti" di Gianpaolo Pansa per capire la violenza del "vento del Nord", che tuttavia colpì la Fiat con inattesa moderazione: gli Agnelli conservarono la proprietà e Valletta, denunciato per collaborazionismo, nel '46 era già amministratore delegato. Per fortuna, bisogna dire, perché nessuno meglio di lui avrebbe saputo guidare la fabbrica verso la ricostruzione (ma in Francia a Louis Renault era andata diversamente…).

Una crepa nella barriera doganale

Il Paese era sull'orlo della bancarotta, colpito da un'inflazione fuori controllo e da una catena inarrestabile di scioperi. La Fiat attraversò anni terribili finché, tra il 1949 e il 1951, non arrivarono i soldi del "Piano Marshall" per la ricostruzione: 31 milioni di dollari. Protetta dai dazi doganali (45-50%), la Fiat arrivò ad assicurarsi quasi il 90 per cento delle vendite sul mercato nazionale. Non poteva durare a lungo: i trattati di Roma del 1957 prevedevano l'abolizione, anche se non immediata, dei dazi doganali; Valletta ottenne allora che negli accordi fosse inserita la "clausola di salvaguardia": ogni nazione, in casi eccezionali, avrebbe potuto ripristinare le vecchie tariffe doganali. Non riuscì invece a impedire l'ingresso in Italia di due "cavalli di Troia", inviati rispettivamente dalla Renault e dalla British Motor Corporation:la "Dauphine", montata dall'Alfa Romeo, e l'"A40", con la quale l'Innocenti per la prima volta affiancava agli scooter la produzione di automobili. Le due vetture straniere modificarono lo status quo che la Fiat aveva strenuamente difeso. Le conseguenze furono tuttavia modeste: nel pieno del boom economico, Alfa Romeo "Dauphine" e Innocenti "A40" non rallentarono l'espansione della Fiat, che nel 1960 raggiunse il traguardo di mezzo milione di auto prodotte (il 4,7% del volume automobilistico mondiale), balzando al secondo posto in Europa dietro la Volkswagen. All'epoca, i treni che venivanodal Sud scaricavano a Torino centinaia di migranti alla volta, prontamente arruolati dalla Fiat (che superò i 100.000 dipendenti), causando problemi di adattamento e malessere sociale i cui costi pesarono tutti sulla comunità torinese.

Una lira per la Lancia

L'annessione della Lancia nel novembre del 1969, al prezzo simbolico di una lira, fece tirare un sospiro di sollievo al governo, che disinnescò la mina costituita da 6000 lavoratori che rischiavano di trovarsi a spasso in un periodo di forti tensioni sociali. La Fiat si accollò le perdite e le fidejussioni con le varie banche, ma fece lo stesso un ottimo affare: in un colpo solo neutralizzò un concorrente sul quale la solita Ford aveva messo gli occhi e acquisì un marchio di prestigio che le apriva la strada verso una ricca fascia di mercato (non fu poi capace di approfittarne, ma questa è un'altra storia). Il leit motiv della politica e dei commentatori era, da anni, la necessità di portare le fabbriche dove c'era la mano d'opera e non viceversa. La Fiat fece la sua parte: annunciò un programma d'investimenti (Cassino, Termoli, Sulmona, Lecce, Nardò, Bari, Vasto, Brindisi), che fu accolto da quelle popolazioni, ad alto tasso di disoccupazione, come manna dal cielo. In realtà la manna, sotto forma di denaro pubblico, cadde sulla Fiat. Giuseppe Bortolussi, segretario degli artigiani e dei piccoli imprenditori della CGIA di Mestre, ha calcolato che tra il 1977 e il 2009, e con maggiore intensità negli anni Ottanta, lo Stato finanziò la Fiat con sette miliardi e 600.000 euro. Senza contare i contributi alla rottamazione (465 milioni di euro) e alla cassa integrazione. Un'altra fonte, la Uil della Basilicata, indica in 220.000 miliardi di lire il totale dei finanziamenti statali - diretti e indiretti - elargiti alla Fiat dal 1975 a oggi.

Non passa lo straniero

In questo contesto avvenne la cessione dell'Alfa Romeo alla Fiat (1986). Fu un teatrino: l'Iri, cioè il governo, invitò la Ford al tavolo delle trattative, ma tutti intuirono che la decisione di "vendere" alla Fiat era già stata presa. Il gruppo torinese si accollò i debiti (700 miliardi di lire, più i 500 miliardi che l'Alfa avrebbe perso prima di giungere al risanamento, previsto per il 1991) e avrebbe pagato 1050 miliardi di lire in cinque anni a partire dal 1992: soldi che pare non siano mai stati versati. Ora che l'Italia naviga in cattive acque e nessun governo può elargire miliardi con la generosità diuna volta, la Fiat abbandona la nave?

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