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31/07/2015 | di Redazione Ruoteclassiche
Come eravamo: l’epopea dei motori a “U”
Oggi il marketing ecologico dei costruttori impone, nelle competizioni, largo uso dell’elettronica e del downsizing. Ma oltre ottanta anni fa, in uno scenario di quasi totale assenza di regole, drogati dal mito della velocità, sobillati dalla furia cieca della supremazia politico-militare e in un continuo interscambio di idee con il settore aeronautico, le menti ingegneristiche […]
31/07/2015 | di Redazione Ruoteclassiche

Oggi il marketing ecologico dei costruttori impone, nelle competizioni, largo uso dell’elettronica e del downsizing. Ma oltre ottanta anni fa, in uno scenario di quasi totale assenza di regole, drogati dal mito della velocità, sobillati dalla furia cieca della supremazia politico-militare e in un continuo interscambio di idee con il settore aeronautico, le menti ingegneristiche di tre tra i mostri sacri delle corse, Alfa Romeo, Bugatti e Maserati, tradussero così in realtà l’esigenza di maggiore potenza: abbinare a un motore… un altro motore!

Nelle auto da corsa si concentra il massimo delle emozioni che suscita la passione per le automobili: prestazioni assolute, “multipli” di accelerazione g, livelli tecnologici oltre ogni ragionevole immaginazione, immenso stress-psicofisico, folle festanti, successo, bravura… Fino almeno alla metà degli Anni 90 le automobili da competizione furono un trionfo di cilindrate e di tradizione.

In F1, dopo il weekend nero di Imola ‘94, la svolta. Nelle ruote coperte a fine decade, era ancora possibile scendere (ma i risultati erano folli, anacronistici, seppure entusiasmanti!) dagli spazi siderali delle corse alle strade di tutti i giorni, “quasi” con la stessa macchina (la Porsche 911 GT1, la Mercedes CLK-GTR…). Poi è iniziato il nuovo millennio: le cilindrate hanno iniziato a scendere drasticamente, è cominciata l’epopea Audi nella categoria Prototipi con il motore a gasolio (poco romantico, dopo tutto!) e, infine, si è affacciata anche la tecnologia ibrida e la domanda di litio a iniziato a schizzare. Oggi è questa la strada obbligatoria di ogni buon costruttore per una sagace e fruttiva strategia di marchio a favore dei suoi modelli stradali.

Attualmente in Formula 1 si usano motori V6 turbo di 1.600 cc. L’ultima 24 Ore di Le Mans è stata vinta da una Porsche 919 Hybrid: 4 cilindri a V di 2 litri di cilindrata, turbocompressore elettrico, 2 motori elettrici a supporto del propulsore termico. Oltre 900 Cv di potenza. Negli Anni 60 e 70 venivano i brividi per il mostruoso V12 boxer da 5,4 litri con “ventolone” centrale della Porsche 917 e per la sua versione biturbo, la 917/30 Can Am da oltre 1.000 Cv. O per la Ferrari 312T con 12 cilindri. O, ancora, per i possenti Big Block americani da 7 litri e oltre di cubatura.

Cos’e’ piu’ potente di un motore? 2 motori!
Ma ci fu un’epoca in cui il “folle” risultato dell’evoluzione ingegneristica produsse effetti ancora più sensazionali, oggi inimmaginabili e, del resto, così lontani nel tempo da apparire preistoria. Con la stessa verve progettuale che aveva fatto, agli inizi del secolo XIX, l’America un paese quasi esclusivamente a “trazione elettrica” (le auto a benzina erano considerate un’idea vecchia e destinata a morire presto) così sul finire degli Anni 20, alla famelica ricerca di cavalli, i marchi automobilistici (che in quel periodo avevano importanti interessi anche nel settore aeronautico) si diedero alla moltiplicazione inusitata di cilindri nei loro motori.

Con una tecnica che oggi appare sconcertante ma che all’epoca risultò perfetta per ottenere cavalli senza necessità di stravolgimenti progettuali su auto già esistenti, si andava ad affiancare a un motore un altro motore identico, per raddoppiare le forze in campo! E giunsero a creare veri e propri aerei con le ruote (gli stessi carrozzieri, come Zagato, all’epoca creavano vestiti per velivoli e automobili da corsa utilizzando gli stessi concetti perché uguali erano le finalità: leggerezza, aerodinamicità). Il cui risultato prestazionale lascia semplicemente sgomenti se rapportato al livello tecnologico del tempo, alla sicurezza, alla qualità dei materiali e alla perizia di guida necessaria.

I motori a “U”
In aeronautica come nel settore automobilistico (sia sportivo, sia industriale), la quantità di motori pluricilindrici a due assi progettati fin dall’inizio del ‘900 è particolarmente copiosa. Così scriveva l’Ing. Giacomo Piantanida sul numero XXX di Auto Italiana: “E’ dallo sviluppo dei motori d’aviazione e dei motori veloci (cioè negli ultimi 6 o 7 anni prima della guerra), che si afferma il concetto di trarre partito dai motori a due assi per raggiungere certi speciali obbiettivi: in genere compattezza, elevate velocità e buon equilibrio”.

L’idea di creare una complessa infrastruttura con motori in linea affiancati è la logica conseguenza di cercare potenza senza dover partire da un foglio bianco. Sviluppandosi in larghezza, i motori a U, costituiti da due unità indipendenti, rese solidali da gruppi di ingranaggi che agivano (di solito!) sull’unico cambio e differenziale, potevano essere alloggiati in telai già a disposizione. Il risultato erano potenze molto maggiori e, di conseguenza, nuovi problemi: potenze ingestibili, rapida usura delle gomme, impianti frenanti inadeguati.

Come dimostrano le storie che andiamo a raccontare, i motori a U non hanno avuto grande fortuna, anzi! Ma è, comunque, da attribuire loro la nostra massima ammirazione per il coraggio di mettere in campo simili auto, dotate di una complessità talmente folle da risultare straordinaria e, per questo, apoteosi del coraggio.

Bugatti Type 45 1929
Prima dell’esperienza automobilistica, Ettore Bugatti aveva già progettato un motore a U. Nel 1915 aveva disegnato un propulsore aeronautico, il gigantesco U-16 noto anche come King-Bugatti. Era costituito da un unico blocco motore in alluminio da cui si dipartivano due bancate di 8 cilindri, verticali (ognuna costituita da due 4 cilindri allineati) e parallele tra loro. Concesso in licenza alla Duesenberg in America, fu prodotto in circa una quarantina di esemplari (furono misurati 450 cavalli e un peso di 550 kg), seppur con alcune modifiche.

Alla Bugatti si tornò a parlare di questo tipo di architettura a fine Anni 20 per aumentare la potenza delle Type 35 da Grand Prix. La soluzione messa in campo fu molto semplice: unire due 8 cilindri della 35B e ottenere un’unità motrice di grande potenza. Il layout di questo propulsore prevedeva l’utilizzo di un compressore Roots per ogni fila di cilindri, cilindrata ridotta da 2 a 1,9 litri (per complessivi 3,8 litri), distribuzione monoalbero con 3 valvole per cilindro e alimentazione con doppio carburatore Zenih.

Ognuno dei due 8 cilindri, provvisto del proprio albero motore, era collegato all’unico albero di trasmissione attraverso una cascata di ingranaggi. La potenza massima ottenuta fu quantificata in 240 Cv a 5.000 giri, invero non tantissima per un 16 cilindri! Il problema principale, tuttavia, si rivelò ben presto un altro: il motore, infatti, durante i primi utilizzi aveva mostrato una preoccupante fragilità. Queste iniziali evidenze empiriche furono sufficienti per Bugatti a considerare troppo rischioso il prosieguo dello sviluppo. La Type 45 fu frettolosamente messa in pensione per lasciare campo ai modelli successivi: Type 51, Type 53 a trazione integrale e la Type 59 (quest’ultima, motorizzata con un solo 8 cilindri ma portato a 3,3 litri, forniva 250 Cv come il 16 cilindri).

Maserati V4 (1929) e V5 (1931)
Seppure nata nel 1914 a Bologna come officina di elaborazione delle Diatto, la Maserati approderà alla produzione di una propria vettura solo dodici anni dopo. La Tipo 26, risultato della grande passione e genialità di Alfieri Maserati, leader dello squadrone dei “Fratelli Maserati”, si era subito imposta all’attenzione del pubblico. Alfieri stesso, l’aveva condotta fino al terzo posto assoluto alla gara del debutto, la Targa Florio del ’27. Da molti considerata la prima delle vetture da corsa con motore 16 cilindri a “U”, la Maserati V4 nacque nel ’29 sulla scia di un momento di grande speranze per il Tridente.

Esattamente come nel caso della Bugatti, l’operazione era stata concettualmente semplice: affiancare due motori 8 cilindri bialbero (con un angolo di 25° tra le due bancate) della 26B e ottenere un 16 cilindri 4 litri. Alloggiato su un classico telaio a longheroni, era abbinato a un unico cambio a 4 marce e alla trazione posteriore. La potenza massima erogata era di circa 300 Cv, una forza che generava un consumo molto elevato di carburante (in coda erano posizionati due serbatoi) e di pneumatici. Secondo la Maserati, la velocità massima poteva abbondantemente superare 250 km/h.

Alfieri Maserati la guidò personalmente alla sua prima gara, il Grand Prix di Monza del 15 settembre 1929. Nella prova inaugurale Alfieri si piazzò secondo dietro la Mercedes SSK di Momberger dimostrando l’altissimo potenziale della macchina. Dovette ritirarsi nella gara finale ma piazzò una serie di giri veloci a medie stratosferiche e realizzando un tempo straordinario che sarebbe stato battuto solo nel ’54, venticinque anni più tardi.

La 16 cilindri Maserati si riprese una sonora rivincita due settimane dopo: Baconin Borzacchini stabilì il record dei 10 chilometri sul circuito stradale di Cremona all’incredibile media di oltre 246 km/h. Nel 1930 la V4 vinse con Borzacchini il GP di Tripoli, il primo successo internazionale per la Maserati, ma, per il resto di stagione, fu continuamente ritardata da problemi. Nel 1931 la sua ultima vittoria: il Reale Gran Premio di Roma con alla guida Ernesto Maserati.

Nei mesi invernali venne alla luce la sua evoluzione, la terrificante V5 con motore aggiornato a 5 litri e oltre 350 cavalli. Il pilota bolognese Amedeo Ruggeri perse la vita durante un tentativo di record a Monthlery, il 7 dicembre 1932. Anche Piero Taruffi sfiorò l’appuntamento con il destino al Gran Premio di Tripoli: macchina distrutta ma lui, fortunatamente, si salvò.

La V4 da corsa, lasciata dimenticata nelle stanze della Maserati per qualche mese, fu riscoperta da un cliente di Roma, che ne chiese la trasformazione in roadster stradale. Per la carrozzeria il compito fu affidato alla Zagato, che elaborò un elegante vestito in leggero alluminio verniciato in una elegante doppia tonalità di verde.

Alfa Romeo Tipo A
Alla fine degli Anni 20 l’Alfa 6C, progettata da Vittorio Jano nel ’25, aveva raggiunto il suo massimo sviluppo per l’utilizzo nelle competizioni. La 6C 1750, in versione SS e GS, aveva ottenuto un ottimo successo ma per la stagione di corse 1931 l’Alfa Romeo avrebbe avuto a disposizione le nuovissime 8C 2.3, potente arma ad appannaggio anche della neonata Scuderia Ferrari (la prima a poter vantare lo scudetto del cavallino Rampante sulla carrozzeria). Jano era, tuttavia, perplesso sulla situazione delle gare Gran Prix: la P2 ormai era a fine carriera e la stessa 8C non appariva, nelle premesse, allo stesso livello delle nuove possenti Mercedes SSK con motore 7 litri. La soluzione fu ancora una volta trovata nell’idea di moltiplicare l’utilizzo di motori già disponibili in casa.

Dall’affiancamento di due motori 6 cilindri della 1750 GS, alloggiati in un telaio 8C, si ottenne la Tipo A, considerata la prima vera monoposto della storia Alfa Romeo. I due propulsori avevano la loro “personale” trasmissione: un cambio e un differenziale ciascuno. Complessivamente questo 12 cilindri a U forniva 230 cavalli. La Tipo A, accreditata di un peso di 930 kg, poteva superare 240 km/h.

Ora Vittorio Jano aveva a disposizione tutto quello che gli serviva ma la sua strategia dovette subire una clamorosa smentita in occasione del Gran Premio di Monza del ’31: già durante le prove Luigi Arcangeli perse la vita mentre era al volante della Tipo A. In gara venne schierata una vettura prototipo, che fu costretta al ritiro per noie meccaniche. Trionfarono, invece, le due nuove Alfa Romeo 8C guidate da Nuvolari/Campari e Minoia/Borzacchini.
Durante la stagione la Tipo A vinse solo la Coppa Acerbo a Pescara con alla guida Campari. L’anno successivo fu sostituita dalla nuova Tipo B, o P3, motorizzata con un singolo motore 8C 2.3.

Alfa Romeo 16C Bimotore 1935
Un caso a parte, non affine come architettura tecnica ma ugualmente configurabile come soluzione tecnica di utilizzare “due motori in parallelo”, fu messo in campo dall’Alfa a metà degli Anni 30. Nel 1935, incalzato dal regime fascista (invidioso del dominio delle vetture tedesche del Terzo Reich) e spinto da un sano spirito di ambizione e di competizione sportiva, Enzo Ferrari si fece promotore di una iniziativa per cercare di battere Mercedes e Auto Union nella Formula Libera delle gare Grand Prix, dove l’Alfa Romeo 8C 35 si era rivelata inferiore.

Luigi Bazzi, responsabile tecnico della Scuderia Ferrari, elaborò l’idea: aggiungere, a una Alfa Romeo P3, un secondo motore 8 cilindri 2.9 e posizionarlo in coda, raddoppiando così cilindrata e aumentando significativamente la potenza (frizione unica, cambio unico, trazione posteriore). Dal “bimotore” di 5,8 litri si ottenevano 540 Cv una risultato assolutamente mostruoso che, durante i primi test, rivelò non pochi problemi di stabilità alle alte velocità.

Dopo un esordio non brillante al Gran Premio di Tripoli (Tazio Nuvolari, Louis Chiron e Raymond Sommer furono, rispettivamente, quarto, quinto e sesto, molto lontani dalla concorrenza germanica) furono apportate alcune modifiche ai propulsori per cercare di rendere il loro funzionamento meno problematico e più regolare (tra cui l’aumento di cilindrata per migliorare la progressione). Al successivo Gran Premio dell’Avus Nuvolari, Chiron e Dreyfus ritentarono il colpo ma il risultato non fu soddisfacente: Chiron secondo, Dreyfus sesto e Nuvolari ritirato.

Il progetto fu completamente bocciato dal Nivola, che lamentava la grave mancanza di competitività della Bimotore ed esaltando, invece, le doti della bistrattata 8C 35. Fu lui stesso a dare seguito ai suoi giudizi vincendo il Gran Premio di Germania, l’8 luglio del ’35, proprio al volante della monoposto Alfa conosciuta anche come P3. Per dare comunque alla Bimotore la soddisfazione di un risultato, Nuvolari fu artefice, il 15 giugno del ’35, di uno straordinario record di velocità sulla Firenze – Mare a bordo di quell’auto sostanzialmente inguidabile: colse il primato sul chilometro lanciato (321,428 km/h) e sul miglio (323,125).

Alvise-Marco Seno

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