Circa dieci anni prima della Toyota Prius, l’Alfa Romeo aveva sviluppato un prototipo a propulsione ibrida.
Alla fine degli anni 80 la tendenza a sviluppare vetture a propulsione ibrida è ancora lontana dal prendere piede. In Italia, l’Alfa Romeo non scampa la grande stagione delle privatizzazioni e, dopo decenni di alti e bassi trascorsi nel calderone delle aziende a partecipazione statale, nel 1986 passa dall’Iri alla Fiat. Al centro ricerche della Casa milanese si lavora senza sosta: oltre che sul progetto di una nuova berlina a trazione anteriore, la 164, i tecnici del Biscione stanno concentrando i loro sforzi sullo sviluppo di un sistema alternativo al petrolio. Così, un marchio per tradizione votato alla realizzazione di modelli sportivi e da corsa, si lancia a capofitto nella sfida dell’ibrido.
Vettura laboratorio. La Casa del Biscione sceglie di farlo con il suo modello più “popolare”: è la 33, l’Alfa “d’attacco”, a essere utilizzata come veicolo-laboratorio. Si porta quindi avanti il progetto di un’automobile a misura di città, con emissioni inquinanti ridotte e una buona capacità di carico. C’è chi afferma che la scelta della configurazione giardinetta “Sport Wagon” non sia affatto casuale: se la macchina andrà bene, si dice in giro, se ne farà una flotta di taxi per servire le principali città italiane.
L’elettrico di Genova. Sotto il cofano si parte da un marchio di fabbrica, il collaudatissimo boxer “Alfasud” – qui in versione 1.5 da 95 CV -, cui viene abbinato un motore elettrico asincrono trifase (16 CV e 6,1 kgm di coppia) fornito dalla Ansaldo di Genova. Il sistema CEM (Controllo Elettronico Motore) – che debutta nel 1983 sull’Alfetta – gestisce in modo integrato iniezione e accensione, aumentando così l’efficienza del motore endotermico. L’unità elettrica è accoppiata al cambio tramite una cinghia dentata: la vettura può quindi avanzare spinta dal solo motore elettrico, da quello a benzina o – ed ecco il senso della propulsione ibrida – da entrambi.
Pronta per la produzione. La 33 Ibrida, al di là di qualche problema di rumorosità, si poteva fare, eccome: il progetto era assolutamente “realistico”, con modifiche alla scocca di serie minime e un aumento di peso di soli 150 kg (110 di batterie, 20 di motore e 10 per l’elettronica di potenza). Senza contare il fatto che era in grado di viaggiare fino a 60 km/h in modalità elettrica, con un’autonomia di 5 km, davvero niente male per l’epoca. Dell’Alfa ibrida costruirono tre prototipi, tre 33 tutte diverse tra loro. Un sogno a metà in quel di Arese, che testimonia comunque tutto lo spirito di innovazione e la ricerca dell’eccellenza tecnologica che da sempre contraddistinguono la Casa del Biscione.
La prova di Quattroruote. La 33 Ibrida aveva comunque raggiunto un tale livello di sviluppo da consentire a Quattroruote di testare le prestazioni di uno dei tre prototipi approntati. Secondo i rilevamenti del Centro Prove, il prototipo raggiungeva una velocità massima di 62,4 km/h in modalità elettrica e di 139,8 con il motore boxer di 1.5 litri, perché, per evitare danneggiamenti durante la sperimentazione, era stato installato un limitatore di giri, che limitava il regime massimo a quota 4.500 giri.