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In ricordo di Romolo Tavoni

Strette nei cappotti le persone parlano nel loro dialetto, così come il prete, severo, sul presbiterio. È questo il cuore della storia, dove tutto comincia e oggi finisce. Il luogo si chiama Casinalbo, si trova a otto chilometri da Maranello, distanza che lui, quando era un giovane segretario del Drake, percorreva in Vélosolex.

Parliamo di un tempo tra i sessanta e i settanta anni fa, che sono un altro cuore, quello del mito: il mito della Ferrari. È allora, negli anni Cinquanta, che si compie la magia e tutto ha realmente inizio. La guerra è finita, Ferrari diventa un marchio, cominciano le corse, arrivano le vittorie e, tra difficoltà inimmaginabili, le auto che escono da quella piccola fabbrica diventano le più desiderabili del mondo. Tanto quelle da strada quanto quelle da corsa. I campioni correrebbero senza essere pagati, pur di correre per lui. Anzi, il più delle volte pagano. Pagano per correre e per morire. Ed è qui, che tutto ha inizio, in questa terra piatta abitata da gente operosa. Ferrari trasforma degli agricoltori nei meccanici più bravi del mondo. E trasforma un giovane ragioniere di Casinalbo, che ha fatto la resistenza nelle brigate di Giustizia e Libertà e poi ha lavorato, brevemente, alla odiata Maserati, quindi in banca dove avrebbe peraltro dovuto rimanere, lo trasforma nel suo braccio destro, in una delle sue costole, nell’uomo a lui più vicino in quell’epoca chiave per lui e per la Ferrari, un’epoca in cui accade tutto: Enzo cresce il suo figlio illegittimo Piero, perde suo figlio Dino, vince tutto ciò che può vincere sulle strade e le piste di tutto il mondo, piange i più giovani talenti della Formula 1 che si immolano sulle sue vetture per divenire nient’altro che i suoi preferiti, impone al mondo un nuovo genere di auto, moderno, le Gran Turismo, che da allora sono fatte come lui le fa, e alla fine di quei Cinquanta che sono un unico, lungo respiro quasi fossero stati vissuti in apnea tanto sono intensi, mette il carro davanti ai buoi e nel 1961 conquista il campionato del mondo di Formula 1 con la sua prima monoposto da Grand Prix a motore posteriore, con un pilota americano dopo che il candidato alla vittoria, il conte von Trips, è morto a Monza con 14 spettatori la domenica del Gran Premio d’Italia. E questo è solo il preambolo della storia.

Un glorioso trascorso. L’ultimo capitolo è in questo dialetto emiliano sussurrato, nei banchi della chiesa sui quali sono incisi e a volte cancellati i nomi delle famiglie che li hanno voluti, nelle lacrime delle nipoti, nella presenza degli amici di una vita, nell’addio a Romolo Tavoni, che è mancato domenica 20 dicembre, a Casinalbo appunto, paese nel quale era nato 94 anni prima.

Ma qui dovremmo parlare di Oscar. Nessuno, nel suo paese come in casa, lo chiamava Romolo, ma Oscar. Infatti lui divideva le due cose, come tra mondo privato e pubblico: il mondo di Oscar e quello di Tavoni.
Quest’ultimo è stato glorioso e si sa. Sotto la sua direzione sportiva, cominciata nel 1957 e terminata nel 61, ha vinto due Campionati del Mondo di F1 (1958 e 61), un titolo iridato Costruttori F1 (1961), quattro Campionati del Mondo Costruttori Sport (1957, 1958, 1960 e 1961),  tre volte la Coppa di Formula 2 (1958, 59, 60) e quattro la Coppa per vetture Gran Turismo (dal 1957 al 61). Il primo anno condivise l’onere (era soprattutto questo, lavorando per Ferrari: gli onori erano riservati ai ricordi) con Mino Amorotti, proprietario terriero e amico personale di Ferrari che, per passione, seguiva la squadra sulle piste. Raccontava, Tavoni, che il Commendatore più volte chiese ad Amorotti, gentiluomo di campagna, di essere ricompensato per il suo tempo, e lui rispondeva: “Rimaniamo amici”. Inoltre, già come segretario del Drake, aveva vissuto gli anni altrettanto gloriosi dal 1950 al 56, quelli che vanno da Ascari a Fangio. Con Nello Ugolini, detto il Maestro, alla direzione sportiva, Ferrari vinse due titoli iridati F1 con Ascari, mentre nel 56 con Fangio c’era Eraldo Sculati, ma fu un’esperienza tanto stressante che dopo tornò al suo mestiere, il giornalista. Tavoni, invece, al Commendatore aveva fatto, se così si può dire, il callo. Non poteva essere altrimenti, con un uomo che lo licenziava la sera e lo riassumeva la mattina.

Oltre il Cavallino. Ma la grandezza di Tavoni è che ha saputo non rimanere per sempre all’ombra di Ferrari. Dopo essere stato “Enzo’s right-hand man”, come lo chiamavano i giornalisti inglesi, brillò di luce propria, cosa che non capitò ad altri collaboratori di Ferrari che pure trascorsero, dopo di lui, molti anni a Maranello. Tutti ricordano che diede vita, su stimolo di Luigi Bertett, illuminato direttore dell’Automobil Club Milano e poi dell’Automobile Club d’Italia, alla Formula Monza, alla più famosa ed efficace formula addestrativa italiana, che batté sul tempo anche la blasonata Formula Ford, nata dopo; ma Tavoni, in quello stesso 1965, all’anno di debutto sulla scena milanese dopo essere stato licenziato dal Drake assieme a Chiti e Bizzarini e agli altri dirigenti alla fine del 61 e avere partecipato alla fallimentare esperienza della ATS, sempre su stimolo di Bertett creò un evento che è entrato nella storia delle gare di durata: la 1000 Chilometri di Monza. Seguirono trent’anni di lavoro per il più importante autodromo italiano, come braccio destro di Giuseppe Bacciagaluppi, un altro grande personaggio cui si deve la ricostruzione del circuito dopo la guerra. Inutile dire che furono gli anni più belli di Monza, che dalla metà degli anni Novanta, senza gente del loro calibro, è soltanto la triste ombra dei bei tempi passati.
È stato lì, a Monza, negli anni Novanta, che ho conosciuto Tavoni. Mi ci portò Franco Varisco, il più grande fotografo si Formula 1 degli anni Sessanta, oltre che scopritore di talenti e impareggiabile flâneur. Conobbi Romolo e anche Bacciagaluppi. Lui, Tavoni, non aveva mai parlato degli anni della Ferrari. A settant’anni decise di farlo con me. Ne nacque un libro, Gli indisciplinati, che racconta la storia della Ferrari Primavera ma racconta anche Romolo Tavoni e la sua grandezza, la sua rettitudine, il suo acume, il suo mondo, le sue storie. Se volete sapere di lui, leggete quel libro, vi farà bene.

Un grande amico, un grande uomo. A Tavoni ho voluto bene e ho detto tutto. È difficile parlare degli amici veri che non ci sono più. I miei più grandi amici sono tutti più vecchi di me: lui, Marcello Sabbatini, Franco Varisco. Sarà perché non sopporto le persone che non hanno niente da dire. Con Romolo, quando parlava andavi a scuola. Un giorno la moglie Marisa gli chiese: “Oscar, ci sono state altre donne?”. E lui, che per tanti anni aveva vissuto lontano da casa durante la settimana: “No Marisa, e se ci fossero state, sarebbero state fiori di plastica”. Che se mi permettete, è tra le più belle dichiarazioni d’amore che un uomo possa pronunciare.

Testo di Luca Delli Carri

 

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